Ha ancora senso parlare di economia digitale?
Ormai è parte integrante della letteratura in materia. La diffusione di internet ultra-veloce è condizione fondamentale per la crescita economica di un paese e l’occupazione. Ed è altrettanto risaputo che l’Italia, in questo senso, presenta ritardi non indifferenti.
Ne abbiamo scritto anche di recente: secondo il Digital Economy and Society Index 2016 (DESI) – l’indice che valuta lo stato di avanzamento verso un’economia e una società digitali attraverso cinque indicatori (connettività, capitale umano, utilizzo di internet, integrazione della tecnologia digitale e servizi pubblici digitali) – il nostro paese è agli ultimi posti nell’Ue28 per diffusione sul proprio territorio della banda larga ad alta velocità e della banda ultra-larga.
Ecco perché il recente annuncio del premier Matteo Renzi relativo all’accordo tra Enel, Wind e Vodafone per una rete in fibra ottica ultra-veloce – un investimento da 2,5 miliardi di euro che “porterà” la fibra in 224 città italiane – è da ritenersi positivo, pur nella consapevolezza delle lacune nel tempo cumulate.
Può tornare utile, allora, leggere le statistiche contenute nel rapporto Noi Italia 2016 dell’Istat. Nel confronto europeo, infatti, anche la diffusione della sola banda larga tra le famiglie italiane (71% nel 2014) è inferiore alla media dei 28 (78%). Nei Paesi Bassi (95%), in Lussemburgo (93%), Finlandia (89%), Regno Unito (88%), Germania e Svezia (87%), Danimarca (85%) e Belgio (81%) i livelli di penetrazione sono di gran lunga superiori al valore medio.
Lo sviluppo di internet, insomma, genera ricchezza. La Banca mondiale aveva stimato in uno studio di alcuni anni fa un incremento di Pil dell’1,38% nei paesi a reddito medio basso ad ogni aumento di dieci punti dello sviluppo della banda larga (e ad oggi, nel mondo, ci sono 4,2 miliardi di persone che ancora non accedono a internet).
Si pensi ai vantaggi: le piccole e medie imprese innovative potrebbero così aumentare il proprio grado di competitività in un mercato sempre più globale, le start up vedere agevolato il percorso di crescita, il commercio elettronico diffondere nuovi modelli di business che rendano più dinamico il Made in Italy, un più efficiente rapporto pubblica amministrazione-cittadini.
Secondo l’Osservatorio Unioncamere sulla demografia d’impresa quasi i due terzi delle imprese nate nel 2014 con a capo giovani “under 35” partivano già attive sul web mentre il 45% indicava di essere pronto, o di stare per attrezzarsi, alla vendita online. Ma c’è molto di più in ballo: stando ad un recente studio del Boston Consulting Group già quest’anno internet potrebbe, tra i paesi del G-20, contribuire a generare fino al 12,4% del Pil nel Regno Unito e il 5,7% del Pil europeo (la media del G-20 si attesterebbe al 5,3%).
Per quanto riguarda l’Italia, il contributo alla crescita del Pil sarebbe pari al 3,5%. Una stima inferiore al valore medio, certo, ma che rende bene l’idea di quanto sia ormai inopportuno distinguere un’economia di tipo tradizionale da “un’economia digitale”.