Chi è Rodrigo Duterte
Rodrigo Duterte ha un soprannome che la dice lunga sul suo conto. Nel 2002, il settimanale Time lo chiamò “The Punisher”. Il punitore, tradotto in italiano. Un appellativo (probabilmente) azzeccato e che lo accompagnerà anche dopo il suo più grande successo politico. All’età di 71 anni, Duterte è diventato il presidente del suo Paese: le Filippine. Nelle elezioni di domenica, a cui ha partecipato circa l’80% dei 54 milioni di aventi diritto al voto, Duterte ha conquistato circa il 39% dei voti contro il 23% dell’ormai ex ministro dell’Interno Mar Roxas e il 21% della senatrice Grace Poe. Seppure i dati non sono ancora definitivi — la Commissione elettorale filippina (COMELEC) potrebbe impiegare ancora qualche giorno prima di ufficializzarli definitivamente —, la vittoria di Duterte è certa.
Duterte è un volto conosciuto della politica filippina, almeno a livello locale: dal 1988 ad oggi, è stato il sindaco di Davao, la terza città più grande di tutto l’arcipelago filippino e capitale di Mindanao, l’isola alle prese con i separatisti islamici. Durante la sua amministrazione le cose sono cambiate parecchio: dall’essere una delle località più pericolose delle Filippine, Davao è diventata una delle città più sicure al mondo — la nona, secondo una classifica stilata da Numbeo — e dove gli abitanti e gli stranieri (imprenditori e turisti) si sentono protetti.
Come ci è riuscito, Duterte AKA The Punisher? Organizzando i cosiddetti squadroni della morte, denunciano le organizzazioni umanitarie. Human Right Watch (HRW) sostiene che, nel commentare la classifica da Numbeo, Duterte avrebbe ammesso di aver eliminato fisicamente chi rendeva Davao un posto pericoloso: i criminali “li ho uccisi tutti”, avrebbe confessato Duterte. Padre Amado Picardal, ex portavoce di un comitato locale contro la violenza sommaria, ha detto ad al Jazeera che tra il 1998 e il 2015 un gruppo paramilitare attivo a Davao ha ucciso 1.424 persone, compresi 132 minorenni. Ma gli squadroni della morte non infastidiscono i concittadini di Duderte: secondo un sondaggio dell’Università di Davao, il 54,9% ha ammesso che “sono ok” mentre soltanto il 15,1% si è detto contrario. L’ordine imposto dall’amministrazione Duderte — tra le altre cose, a Davao è vietato vendere liquori dall’una alle otto del mattino, la notte gli adolescenti possono uscire di casa solo se accompagnati da un adulto… — ha garantito uno sviluppo economico senza eguali nel resto delle Filippine: secondo i dati del governo filippino citati dall’agenzia di stampa Reuters, tra il 2010 e il 2014 l’economia della regione di Davao è cresciuta del 6,6% e dunque ad un ritmo superiore rispetto alla media del Paese (+6,3%). Inoltre, stando ad un’analisi della Banca mondiale del 2011, a Davao occorrono 27 giorni per avviare un’impresa (a Manila, la Capitale, ne servono 38).
Il piglio autoritario e i suoi metodi spicci — una volta, Duterte obbligò un turista straniero, che non voleva rispettare il divieto di fumo in un locale di Davao, a mangiare i mozziconi delle sue sigarette — non sono le uniche caratteristiche che gli elettori filippini apprezzano di Duterte. Anche la sua spacconeria lo ha aiutato ad accattivarsene le simpatie. In un Paese a stragrande maggioranza cattolica, Duterte si è detto deluso per non aver partecipato allo stupro di una missionaria australiana (poi uccisa) durante una rivolta carceraria nell’agosto del 1989, ha insultato Papa Francesco, ha ammesso di utilizzare frequentemente il viagra e di avere due mogli e due fidanzate. Duterte è un’iconoclasta, ha scritto al Jazeera. Ma ai filippini poco importa. Loro preferiscono uno così alla vecchia e corrotta classe politica, incapace di ridistribuire la ricchezza prodotta negli ultimi anni — il Prodotto interno lordo filippino è cresciuto mediamente del 6,6% e gli investimenti esteri si sono triplicati –, finita nelle mani del 40% delle famiglie più ricche, le stessa dalle quali proviene circa il 70% dei legislatori, sottolinea Il Foglio. I predecessori di Duterte non hanno alleviato le profonde disuguaglianze che dividono il Paese (il 26,3% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà) e che ne rappresentano uno dei problemi principali, almeno secondo il giudizio dei filippini stessi. Un sondaggio del quotidiano The Standard rileva che il 26% della popolazione indica nella povertà il problema più grande del Paese, il 21% sostiene che sono le droghe, mentre per il 20% e l’8% sono rispettivamente la corruzione e la criminalità. Una volta diventato presidente, Duterte avrà parecchio da fare per non deludere i suoi connazionali che si aspettano risultati concreti. Secondo il sondaggio dello Standard, il 37 e il 36% dei filippini sostiene che, tra tutti i candidati alla presidenza, Duterte era il più indicato per risolvere il problema relativo alla droga e alla criminalità, mentre la senatrice Grace Poe avrebbe potuto trovare una soluzione alla povertà (34%) e alla disoccupazione (30%). Il sondaggio rileva dunque le priorità dei filippini, probabilmente convinti che il modello Davao possa essere esteso a tutto il Paese. Dal canto suo, Duterte non ha esitato ad alimentarne le speranze. Prima delle elezioni presidenziali, ha promesso di estirpare la corruzione e di riportare “entro sei mesi” l’ordine nel Paese, uccidendo tutti i presunti criminali — una stima approssimativa del neo presidente prevede circa 100mila morti –, per poi gettarne i corpi nella baia di Manila.
Ma, se la gestione dell’ordine pubblico appare discutibile, il resto è indecifrabile. Tanto in ambito economico — ”Mi rivolgerò alle migliori menti economiche del Paese, offrendo loro il doppio dello stipendio”, ha spiegato candidamente Duterte — quanto in politica estera. Nel corso della campagna elettorale, l’ormai ex sindaco di Davao ha messo in discussione la storica alleanza con gli Stati Uniti — fino al 1946, le Filippine sono state una colonia statunitense –, rinsaldata solo recentemente dal presidente Aquino: nel 2014 Manila ha firmato l’Enhanced Defense Cooperation Agreement, un accordo che, tra le altre cose, consente all’esercito americano un ampio accesso alle basi militari filippine e che è giudicato costituzionale dalla Corte suprema filippina nel gennaio scorso.
Un riavvicinamento che ha consentito a Manila di denunciare al tribunale internazionale dell’Aia le rivendicazioni della Cina sulle isole Spratly, l’arcipelago del mar cinese meridionale tra le coste del Vietnam e delle Filippine considerate da Manila territorio nazionale. Duterte vorrebbe cambiare strategia: ha promesso di “starsene zitto” sul mar della Cina, in cambio Pechino dovrà costruire le ferrovie nelle Filippine e non avanzare pretese sulle isole Spratly, in caso contrario il neo-presidente ha minacciato che ci sbarcherà personalmente a bordo di una moto d’acqua, per piantarvi una bandiera delle Filippine.
Eppure il Time invita a non considerare Duterte soltanto “un cafone”. In campagna elettorale, osserva il settimanale britannico, il neo-presidente filippino ha promesso che considererà la legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso e di sostenere gli omosessuali che lavorano nell’esercito. “Ognuno — ha sottolineato Duterte, in una sua recente apparizione — merita di essere felice”. Anche le donne. I toni maschilisti utilizzati negli ultimi mesi non rispecchiano il suo operato politico: da sindaco di Davao, ha osservato il New York Times, Duterte ha introdotto delle leggi che mirano a migliorare le opportunità delle donne nel governo. Mentre, parlando al Time, la senatrice filippina Pia Cayetano, una delle figure politiche femminili più importanti del Paese, ha ammesso di aver suggerito a Duterte di cambiare “drasticamente il suo linguaggio, perché distrae la gente dal lavoro che lui ha fatto” per far rispettare i diritti delle donne.
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