Usa 2016. Sognando la California
Che i risultati delle primarie in Oregon e Kentucky abbiano diviso il partito democratico in due fazioni, è ormai assodato. Mentre Donald Trump, consolidata la sua posizione, corre da solo verso la convention di Cleveland, i due candidati democratici per la corsa alla presidenza, Hillary Clinton e Bernie Sanders, che nella fase iniziale twittavano “Uniti siamo sempre più forti”, si trovano adesso impegnati in un acceso testa a testa che vedrà il suo culmine con le primarie che si svolgeranno il prossimo 7 giugno in California.
Al contrario di ogni previsione, la vittoria in Oregon ha, infatti, dato nuova energia a Sanders, costringendo Hillary Clinton a scendere in campo con due alleati d’eccezione: Barack Obama, che dalla cerimonia della consegna delle lauree alla Rutgers University ha attaccato Trump, e il marito Bill Clinton, che si è proposto come eroe del rilancio economico nella sua amministrazione.
Insomma, la campagna rivolta alla classe media, all’equità sociale e alle minoranze sembra non bastare più. I due uomini intervenuti al suo fianco rendono palese come l’obiettivo della Clinton sia quello di recuperare il favore dei “white blue-collars”, la classe lavoratrice bianca, strappandoli agli slogan del candidato repubblicano che attaccano il libero mercato, facendo contemporaneamente breccia tra i giovani insofferenti di politici tradizionali e attratti dal “socialista” Sanders.
Tuttavia, se le azioni dell’ex first lady lasciano intravedere un poco di incertezza, le sue parole alla CNN non lasciano campo al suo rivale: le primarie del suo partito sono chiuse, “È tempo per il Senatore Bernie Sanders di accettare la realtà e iniziare a lavorare per unificare il partito”. A Hillary Clinton, infatti, mancano 92 delegati dei 2.383 necessari alla nomination per le elezioni presidenziali americane, una quantità tale da rendere quasi improbabile la rimonta per il senatore del Vermont.
Bernie Sanders ha però escluso una sua rinuncia alla corsa alla Casa Bianca con un appassionato discorso ai suoi supporters: “Dicono che dovrei ritirarmi. Forse i cittadini della California non hanno il diritto di scegliere il Presidente? Resteremo nella sfida fino all’ultimo voto”.
La scelta della California, come terreno di sfida conclusiva per il partito democratico non è casuale. Il Golden State mette infatti in palio ben 475 delegati, il numero più alto finora, corrispondenti a circa il 20% di quelli necessari per aggiudicarsi la nomination (e al 12% dei 4.035 delegati in campo nelle elezioni 2016). Inoltre, una vittoria in uno dei tradizionali baluardi democratici darebbe al partito un’indicazione forte su quale potrebbe essere il candidato giusto per le presidenziali.
Se fino a ora le primarie democratiche hanno visto un progressivo inasprimento dei toni e dei modi tra le due fazioni, gli episodi di violenza in Nevada, dove alcuni sostenitori di Bernie Sanders hanno attaccato fisicamente i supporters di Hillary Clinton, hanno segnato il punto di rottura. Adesso il rischio è quello che il partito vada incontro a una divisione sempre più insanabile, presentandosi indebolito e logorato alla convention prevista per il 25 luglio a Philadelphia, in cui verrà ufficializzata la scelta del proprio candidato.
In questa sede i cosiddetti “Superdelegates”, funzionari di partito illustri non legati ad alcun candidato, potranno ancora far oscillare la votazione in favore dell’uno o dell’altro, con la possibilità di vanificare i risultati ottenuti fino a quel momento. Senza dubbio la preoccupazione più grande è rivolta al fatto che, qualsiasi sia il candidato designato, si troverà a correre (ed eventualmente a governare) senza un partito compatto alle spalle.
La sfida californiana sembra essere quindi un’arma a doppio taglio per il partito democratico, che va sempre più spaccandosi nel momento esatto in cui quello repubblicano prova a raccogliersi intorno al proprio candidato.
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