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La contraffazione corre su Instagram

di Umberto Schiavella

contraffazione_prodottiDue giorni fa, un giudice veneziano, ha assolto per non aver commesso il fatto un giovane senegalese che, sei anni fa, era stato accusato di ricettazione e contraffazione di marchi perché trovato in possesso di una ventina di orologi falsi, tra cui un Mont Blanc, quattro Rolex, un Panerai e cinque Breitling. Il giudice ha motivato la sua decisione partendo dall’assunto che, se la “patacca” è troppo evidente e viene messa in vendita ad un prezzo decisamente più basso non ci può essere il reato di contraffazione. Per il giudice non è possibile acquistare un Daytona alla modica cifra di 30 euro da un venditore abusivo in spiaggia, quando la Rolex stessa lo vede ad un prezzo intorno ai 30mila euro, una disparità qualitativa e di stima dell’oggetto troppo marcata per far sì che un cliente sia vittima di una truffa commerciale. Chi ha acquistato lo ha fatto in piena consapevolezza, sapeva cosa stava comprando, ossia un finto Rolex e, per questo motivo, il venditore non può essere ritenuto colpevole.
Ma la contraffazione dei marchi non gira solo sulle nostre spiagge, è, neanche a dirlo, il web l’ultima frontiera e da un bel po’ di tempo. Secondo Confesercenti, in Italia, le vendite tramite e-commerce di prodotti contraffatti sono cresciute del 60% tra il 2012 e il 2013 a discapito delle imprese che producono gli originali e dei consumatori che spesso acquistano inconsapevolmente un prodotto falso: un consumatore su quattro ne ha comprato almeno uno, denuncia Confesercenti. Uno studio condotto da Transcrime, il centro di ricerca di Criminologia dell’Università Cattolica di Milano e dell’Università degli Studi di Trento, sostiene che solo nell’Unione Europea il mercato dei prodotti contraffatti vale 9 miliardi di euro l’anno e ogni cittadino dell’UE spende mediamente 528 euro per acquistare prodotti falsi presenti sui mercati degli Stati membri. Lo scorso marzo, grazie ad una segnalazione Adoc e Indicam, l’Antitrust, in collaborazione con la Guardia di Finanza, ha oscurato 174 siti web che vendevano prodotti falsi di grandi marchi. I consumatori venivano tratti in inganno perché i siti erano stati costruiti in modo da apparire come dei veri rivenditori ufficiali dei prodotti pubblicizzati: non solo i nomi, ma le immagini e le foto inserite, a fronte di sconti consistenti rispetto ai prezzi ufficiali, rendevano le offerte molto credibili. In sostanza si trattava di siti che per l’allestimento e la grafica costituivano dei cloni di quelli originali, senza però fornire le informazioni prescritte dalla legge sui diritti degli acquirenti in tema di recesso, di ripensamento ed in tema di garanzia.
Ma anche i social network sono coinvolti dal fenomeno della contraffazione e, in particolare Instagram. Oltre ad essere il social fotografico più amato dai fashionisti, Instagram, a sua insaputa, sta dando molto spazio ai dealer della contraffazione. Una recente ricerca di Andrea Stroppa, Security Researcher del World Economic Forum e apparsa sul Washington Post dal titolo Social media and luxury goods counterfeit: a growing concern for government, industry and consumers worldwide spiega come le organizzazioni criminali che operano dietro il mercato dei falsi si sono attrezzate utilizzando tutte le ultime tecnologie a disposizione per incrementare le loro vendite illegali rimanendo allo stesso tempo anonimi e al sicuro dal braccio della legge, soprattutto usando i profili Instagram. Secondo la ricerca solo nei primi mesi del 2016 sono stati individuati oltre 20.000 account che hanno postato merce contraffatta proprio sui profili Instagram, nel 2015 Google ne ha bloccati 18.000, mentre WeChat ne ha sospesi 7.000. Questi 20.000 account hanno pubblicato oltre 14 milioni di post, per lo più si tratta di account automatizzati, i cosiddetti botnet in grado di postare 24 ore su 24 e sette giorni su sette. Per evitare di essere bloccati da Instagram che continuamente analizza testi e hashtag alla ricerca di offerte commerciali sospette, i falsari, solitamente, pubblicano le foto soltanto con degli hashtag, mentre le offerte vere e proprie sono incluse come immagini nelle foto stesse impedendo così, di fatto, al social network di estrapolare quei testi che possono rimandare alle attività di vendita dei prodotti contraffatti. Sempre secondo la ricerca, un post su cinque che contiene hashtag relativi ai prodotti di lusso è un post che cerca di vendere merce contraffatta. Ma come avviene la transazione? Il primo contatto avviene sul social network per poi proseguire attraverso comunicazioni tramite i servizi di messaggeria istantanea come WhatsApp, Viber o Telegram, mentre per il pagamento ci si affida ai vari servizi online come, ad esempio, PayPal, dopo di che la merce viene comodamente spedita a casa tramite un semplice corriere. A farla da padrone è la Cina (ma anche Russia, Ucraina, Indonesia e Malesia) a cui, sempre secondo la ricerca di Andrea Stroppa, sembrano essere collegati la maggior parte degli account e dei profili social: proprio recentemente il governo cinese ha chiuso 7.000 account del servizio di Instant Messaging WeChat legati al commercio illegale di prodotti contraffatti. Non è facile combattere il fenomeno, come la testa di Idra appena viene chiuso un account ne viene subito aperto un altro senza colpo ferire. Sempre secondo la ricerca, nel mondo, il costo per i produttori in termini di vendite perse sarebbe del 9,7% con mancati guadagni pari a 17 miliardi, una perdita ingente che si ripercuote anche sull’occupazione, infatti, l’impatto del mercato del falso provocherebbe una perdita di ben 363.000 posti di lavoro nel settore e più di 500.000 nel suo indotto.

 

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