Ricostruire dopo un sisma. Ma come?
Tre fasi: emergenza, ricostruzione e prevenzione. Sono passate due settimane dal terremoto che ha colpito il Centro Italia, il bilancio – si spera ormai definitivo – è di 295 morti, migliaia gli sfollati nelle tendopoli tirate su nei pressi dei Comuni andati in larga parte distrutti (ad Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto le situazioni più critiche). Nel frattempo il Consiglio dei ministri ha nominato Vasco Errani commissario straordinario del governo per la ricostruzione, alla luce della sua esperienza quando era presidente della Regione Emilia Romagna, colpita dal terremoto nel 2012. Le casette, ovvero le sistemazioni provvisorie da destinare agli sfollati, saranno pronte entro sette mesi, hanno assicurato Errani e la Protezione civile. Dopodiché si procederà con la ricostruzione vera e propria. Infine un cambio di rotta paradigmatico e ormai necessario, almeno nelle intenzioni: prevenire. Il progetto, annunciato dal premier Renzi, prende il nome di Casa Italia. Sarà un piano a lungo termine (“un lavoro decennale”, è stato anticipato) con il coinvolgimento di diversi attori a livello locale e nazionale, che andrà dall’adeguamento antisismico agli investimenti su scuole, periferie, dissesto idrogeologico. Ma intanto, a tragedia avvenuta, si contano i morti, si stimano i danni, si contemplano le eccellenze finite sotto le macerie. Cosa vuol dire, allora, “ricostruire”? Per Maria Cristina Forlani, professoressa di Tecnologia dell’Architettura all’Università degli Studi di Chieti e Pescara, esperta di questioni ambientali per l’architettura, in particolare di tecnologie appropriate e di sostenibilità degli interventi in aree sensibili, nonché responsabile scientifico del piano di ricostruzione del Comune di Caporciano (L’Aquila), è importante individuare “le reali possibilità locali”. E da lì ripartire.
Professoressa Forlani, dopo un evento sismico come quello che ha colpito il Centro Italia il 24 agosto, quali sono le prime misure da adottare?
La Protezione Civile è ormai una macchina tra le più efficienti per far fronte alle emergenze di questo tipo e, anche a livello tecnico, le indicazioni per la ricostruzione sono in continua evoluzione verso sistemi sempre più sicuri: niente da eccepire. Semmai ci sarebbe da porsi un quesito: entro quale “progetto” si pongono gli interventi inerenti questi catastrofici accadimenti?
Da quanto se ne sa, nei piani del governo, una volta superata l’emergenza e sistemati gli sfollati nelle provvisorie sistemazioni, si punterà a ricostruire nel minor tempo possibile. Nei giorni scorsi si è anche fatto riferimento al modello Friuli, seguendo il principio del tutto “dov’era e com’era”. Può considerarsi un modello replicabile?
Nel Friuli è stato fatto molto bene, è stata dimostrata capacità ed efficienza. Poteva anche essere un modello replicabile, ma non credo sia opportuno riproporlo oggi: siamo in una situazione socio- economica estremamente diversa, in cui ritengo sia più importante lavorare con un obiettivo allargato alle molte altre difficoltà che si stanno delineando e che configurano un futuro diverso da quello che si prospettava allora. Per quanto riguarda il “dov’era e com’era” penso sia un’espressione prevalentemente emotiva che non dovrebbe essere perseguita ciecamente: ci sono i monumenti, che definiscono l’identità dei luoghi e un tessuto minore ancora identitario. Ma ci sono edifici scomparsi in cumuli di macerie, edifici che avevano subito molteplici rimaneggiamenti, superfetazioni. Per questi direi che bisognerebbe riflettere e decidere quali siano gli elementi – proporzioni, dimensioni, geometrie, materiali, colori…. – da riproporre o conservare, in una ricostruzione capace di lavorare in continuità, secondo le attuali esigenze, evitando falsi storici.
Può spiegarci brevemente le diverse fasi del recupero ambientale ed edilizio?
Nel post-sisma aquilano abbiamo fatto un’esperienza in un Comune dell’altopiano di Navelli, parte di una comunità montana. Il piano era preceduto da un’ampia ricognizione sullo stato del territorio: risorse, peculiarità, popolazione e molto altro. Lo scopo era quello di capire quale “motore locale” si potesse avviare per prefigurare una ricostruzione dell’area secondo i parametri di quello sviluppo sostenibile di cui tanto si parla, ma di cui poco si spiega. La ricostruzione dei luoghi si basava, dunque, sulle possibilità di avviare una rigenerazione che partisse proprio dalle reali possibilità locali: autonomia energetica, legata alla situazione climatica, in un ciclo chiuso comprensivo della razionalizzazione dell’agricoltura; collegamenti su banda larga per favorire il ripopolamento – tele-lavoro e tele-medicina –, coinvolgendo le istituzioni universitarie e la formazione; produzione di beni da risorse locali, configurata secondo una “ecologia industriale”, per garantire lavoro sul territorio e porre così freno alla migrazione; organizzazione del territorio come “metabolismo”, ovvero controllo e valutazione delle azioni-progetto da perseguire.
Come ha già illustrato, dinanzi ad un evento di tale portata bisogna considerare diversi fattori, si presume non solo di natura architettonica. Riqualificare il territorio significa anche rilanciare l’attività economica e lo sviluppo del tessuto sociale. Quanto tempo occorre prima di poter tornare alla normalità?
Dopo il terremoto a L’Aquila emerse chiaro l’obiettivo di ricostruire parallelamente al patrimonio costruito il tessuto socio-economico – si ricordi che quel territorio era già in crisi dal punto di vista dell’economia prima dell’evento sismico – e i piani di ricostruzione avrebbero dovuto distinguersi, dai correnti piani di recupero dei centri storici, proprio per l’introduzione di questa visione transdisciplinare/olistica. Ci sono stati dei tentativi, ma è mancata la discussione e condivisione di uno scenario di sviluppo entro cui collocare questi “tentativi”, il rilancio delle attività. Direi meglio: il “lancio” di nuove attività, ad esempio coerenti con le problematiche ambientali (in primis i cambiamenti climatici) e coscienti delle risorse territoriali (materiali e umane). Sarebbe stato opportuno un confronto politico sulla delineazione di un progetto organico in grado di convogliare fondi europei su proposte efficaci in grado di costituire un cambiamento strutturale, una svolta per un miglioramento radicale e al contempo equilibrato delle condizioni del territorio.
Per il ritorno alla normalità ci si dovrebbe chiedere prima: quale normalità? Quella precedente il sisma? E se quella era già una situazione di crisi? Riscontrammo nel territorio aquilano un altissimo tasso di emigrazione che, nel numero effettivo di residenti nei comuni analizzati, avrebbe portato in pochi anni ad un completo abbandono.
Si stima che in Italia il 60% dei vecchi edifici non siano sicuri e che ammontino a cinque milioni quelli ubicati in zone ad elevato rischio sismico. Come si spiega una moltitudine di edifici, pubblici e privati, non ancora adeguati e la mancanza di rispetto delle norme antisismiche?
Forse è anche più alta, ma si dovrebbe distinguere tra gli edifici costruiti dal dopoguerra e quelli storici perché l’approccio e le tipologie di intervento sono notevolmente diverse. La maggior parte degli edifici costruiti dagli anni ’50 fanno parte di periferie urbane, dai piccoli ai grandi centri. Per essi comincia ad affacciarsi l’ipotesi di rinnovo: insieme alla necessità di frenare il consumo di suolo, infatti, appare quella di alzare gli standard prestazionali, in particolare energetici, ma anche tipologici – ci sono diverse realtà sociali – e tecnologici. La demolizione selettiva, auspicabile per effettuare il rinnovo di quartieri e parti di città, potrebbe innescare nuovi processi produttivi di materie seconde, oltre che assicurare un contenimento della produzione di rifiuti che per il settore edile supera di gran lunga quella dei rifiuti solidi urbani di cui tanto si parla, 40% contro 15%.
Per gli interventi nel settore dell’edilizia storica le azioni sono più complesse e di conseguenza più costose. Per entrambi comunque non mancano le competenze e le tecnologie quanto piuttosto le risorse economiche, tanto nel pubblico che nel privato. Bisogna constatare però che siamo intrisi, ancora, di una cultura del “nuovo” e del “grande”. Investire per il miglioramento dell’esistente, spesso con piccole azioni, scarsamente appariscenti ed eclatanti, a meno che non si tratti di monumenti, risulta quindi poco appagante.
Si comincia a parlare di prevenzione, su larga scala. A suo avviso quali misure il governo, e le istituzioni in generale, dovrebbero intraprendere al fine di incentivare opere di adeguamento antisismico, in considerazione del fatto che vantaggi economici quali bonus o detrazioni Irpef sono stati introdotti proprio di recente?
Se il problema principale è quello economico mi sembra che le misure finora adottate e – o – adombrate non siano “meditate”. Ad esempio le fasce di maggiore pericolosità, dove sarà possibile accedere a bonus e detrazioni, sono quelle meno popolate ovvero con pochi residenti. In quanti avranno effettivamente diritto ai vantaggi di stato? La questione che si pone ci riporta quindi a quanto indicato nella prima risposta: c’è bisogno di sapere in quale “scenario” investire e, dunque, sapere se il “costruito” dell’entroterra può far parte di un patrimonio ancora vitale e capace di fornire servizio abitativo ad alte prestazioni o è limitato ai circuiti della “memoria” e del solo turismo (difficile, quest’ultimo, da credere come il toccasana di tutto il paese Italia). Sicuramente, se inserito in una politica di riequilibrio territoriale, che non può che passare per una ricerca di nuove economie di livello locale – si vedano le raccomandazioni europee per la città sostenibile: Lipsia 2007 –, può avere un ruolo, economico e ambientale, che valorizzerebbero anche quello storico-artistico. Ci si potrebbe riferire poi ai fondi europei che però, come quelli per la ricerca, non vengono impiegati nei modi più opportuni. Collegare la ricerca a queste tematiche potrebbe essere un buon filone di finanziamenti, ma la burocrazia non facilita tali operazioni e anche a livello locale i passaggi burocratici contribuiscono a gettare ombre. In conclusione si rileva l’assenza di un “progetto” per il Paese né si percepisce la volontà di aprire un dibattito per costruirlo.
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