Una lingua da salvaguardare o in espansione?
Nei giorni scorsi l’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha presentato a Firenze, città scelta non a caso, una proposta di legge a tutela della lingua italiana. Questa proposta si pone come primo obiettivo l’esclusivo uso di termini italiani per le leggi, quindi evitare l’abuso che spesso si fa anche in materia legislativa di parole straniere, soprattutto inglesi. La proposta sarà consegnata anche all’Accademia della Crusca (e messa a disposizione dei parlamentari interessati a sottoscriverla), l’istituto per lo studio e la salvaguardia della lingua italiana, impegnata formalmente in questa direzione già da un anno con il gruppo “Incipit”, ovvero linguisti italiani e svizzeri che hanno lo scopo di monitorare i neologismi e i forestierismi incipienti, prima che entrino nell’uso corrente della lingua. L’istituto ha infatti indetto nel febbraio dello scorso anno un convegno intitolato “La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi”, in cui già si era messo in luce l’abuso di termini anglofoni quando non necessari. Altra questione si pone dinanzi l’impossibilità di riportare fedelmente, con un termine italiano, parole straniere quali spread. I termini anglofoni utilizzati inutilmente tendono a confondere le idee dell’uditore che spesso non comprende del tutto il significato di frasi e parole che sente abitualmente, legate al mondo dell’economia, della tecnologia e della comunicazione, (la Samsung fa una ricerca ogni anno sulla comprensione dei termini tecnologici, l’87% degli italiani intervistati ammette di aver usato parole senza capirne il significato). In soldoni: il problema, evidenziato anche dall’Accademia della Crusca, non è l’uso di termini anglofoni in sé, ma l’utilizzo della lingua inglese in sostituzione dell’italiano.
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Diversi studiosi linguisti ritengono che il “prestito linguistico” comprenderebbe molte aree conoscitive e la sostituzione di parole o termini specifici sarebbe alla base di una forma di “subordinazione” rispetto ad una lingua più diffusa per ragioni politiche, economiche e commerciali. Talvolta le fusioni sono il risultato del contatto tra le popolazioni, ma oggi si parla più di scambio. Secondo i dati del GRADIT, il Grande dizionario italiano dell’uso, gli anglicismi riportati dal 1990 al 2003 sono 1.417, 109 l’anno. Sebbene la maggior parte di questi sia specifico di un ambito e quindi non colloquialmente utilizzato, esiste una grossa fetta di parole che nel linguaggio di tutti i giorni soppiantano termini italiani non per la scarsità del nostro vocabolario. Alcuni esempi? All-inclusive, cover, check out e, per assurdo, made in Italy per designare qualcosa di tipicamente italiano.
Bisogna però sfatare il mito della dimensione esclusivamente locale della nostra lingua. I dati riportati durante l’evento “Stati Generali della lingua italiana nel mondo”, presentato alla Farnesina, sono quasi inaspettati perché descrivono la lingua italiana come la quarta più studiata al mondo, con una crescita sorprendente nell’anno scolastico 2014/15 quando gli studenti stranieri di lingua italiana nel mondo sono stati 2 milioni 233 mila e 373 (in aumento, dunque, rispetto al milione e 700 dell’anno precedente). Sorprende, tale risultato, poiché l’italiano non è una lingua di scambi commerciali, né “universale” come l’inglese o il cinese, rispettivamente prima e seconda della classifica.
Secondo il rapporto degli Stati generali della lingua, tra le motivazioni principali che spingono uno straniero a studiare l’italiano emergono l’arte, la cultura, la musica e la letteratura, segno di un’idea di lingua antica e romanza percepita all’estero. Ma c’è anche una chiave di lettura decisamente più “moderna”. Non dobbiamo dimenticare le eccellenze italiane come la moda, l’enogastronomia, il lusso e il design: settori di attività economica che possono incentivare i giovani stranieri (che magari auspicano di lavorare in questi ambiti) a conoscere la nostra lingua.