Robot e automazione: quale futuro per il lavoro?
Automazione, robotica, intelligenza artificiale: quale futuro per le attività lavorative alla luce della rivoluzione tecnologica che sta interessando le imprese e mutando i processi produttivi? E soprattutto: a che punto siamo in Italia? È ricorrente, di questi tempi, preconizzare scenari nebbiosi – per non dire inquietanti, in alcuni casi – governati dalle macchine e dagli algoritmi, con conseguenze negative su occupazione e sulle mansioni che fin qui hanno interessato i lavoratori in carne ed ossa. Ma è anche abbastanza comune trarre conclusioni affrettate, previsioni nefaste perlopiù: in diversi studi – ad esempio in quello piuttosto recente del McKinsey Global Institute – si sostiene che la presenza dell’uomo nelle attività produttive sarà ancora indispensabile. Ma a quale prezzo? «Le tensioni che attraversano le società industrializzate, gli Stati Uniti in primis – spiega a T-Mag Marco Carricato, docente di Meccanica applicata alle macchine del Dipartimento di Ingegneria industriale all’Università di Bologna –, sono un chiaro segno che la transizione verso l’era dell’automazione massiva può non essere indolore. Il minimo comun denominatore degli interventi che si leggono sul tema è lo stimolo di una competizione crescente tra lavoratori che avranno competenze adeguate per adattarsi ai nuovi scenari e coloro che non le avranno e risulteranno, quindi, “sconfitti”». Il mercato del lavoro è oggi più esigente e in quest’ottica, a maggior ragione in Italia, la soluzione può essere l’investimento reciproco, pubblico e privato. E a quanti non nascondono un senso di inquietudine per un futuro dai contorni incerti (i robot che tolgono lavoro agli umani, per dirne una delle tante) il professore ricorda che «una scoperta scientifica non è né buona né cattiva», ma è l’uso che se ne fa a determinare le conseguenze.
Professor Carricato, partiamo dalle basi: cosa è un robot e come possiamo definirne l’utilizzo in ambito industriale?
Il concetto di robot evolve da quello di automa. I congegni che oggi chiamiamo robot sono innumerevoli e molto diversi tra loro, dai tradizionali manipolatori antropomorfi usati nelle linee automatizzate industriali agli elettrodomestici programmabili e ai veicoli autonomi. Da un punto di vista tecnico, un robot è una macchina in grado di percepire informazioni sul proprio stato e sull’ambiente, e sulla base di questi agire in maniera complessa per compiere operazioni, ad esempio, di manipolazione o locomozione. Ritengo che le parole chiave alla base del concetto di robot siano macchina, percezione, complessità, flessibilità.
Sarebbe a dire?
La flessibilità è ciò che permette ad un robot di compiere azioni differenti in contesti differenti, il che segna la demarcazione più evidente rispetto al concetto tradizionale di automazione rigida, con macchine automatiche complesse che possono svolgere azioni ripetitive in maniera estremamente efficiente, ma senza possibilità di adattarsi al cambiamento delle condizioni al contorno. Il concetto di flessibilità è stato tradizionalmente declinato in termini di programmabilità, ossia la capacità di recepire istruzioni differenti da operatori umani per svolgere compiti diversi. Oggigiorno, in realtà, i robot sono contrassegnati da gradi di autonomia sempre maggiori, al punto di essere macchine intelligenti, in grado di cambiare autonomamente il proprio comportamento sulla base delle proprie percezioni. A titolo esemplificativo, i robot tradizionali sono impiegati in ambito industriale come macchine programmabili per svolgere compiti ripetitivi, gravosi, pericolosi in modo efficace ed efficiente. Il passaggio ai robot autonomi cambia lo scenario dei possibili utilizzi industriali: si affacciano veicoli autonomi, per esempio, per operazioni di trasporto e logistica, e robot collaborativi, vale a dire robot in grado di lavorare in modo sicuro insieme agli operatori umani (cobotica).
Al di là degli scenari talvolta catastrofici che vengono diffusi sull’argomento, quali vantaggi per le aziende – anche in termini di produttività – potrebbero derivare dall’impiego dei robot nelle attività lavorative e dall’automazione nei processi produttivi?
I robot possono essere molto accurati e ripetibili, per cui sono in grado di garantire, entro un margine prestabilito e verificabile, alte prestazioni qualitative. Sono instancabili e, se le operazioni da compiere non sono estremamente complesse, anche molto veloci. Inoltre, possono lavorare in condizioni ambientali gravose, se non addirittura pericolose per gli operatori umani. D’altro canto, un robot è una macchina complessa e costosa. Tradizionalmente, si riteneva che il costo di installazione di una linea robotizzata potesse essere ripagato soltanto da alti volumi produttivi. Oggi, in realtà, i costi delle tecnologie robotiche sono giustificabili anche per volumi produttivi relativamente modesti, da un lato per il costo calante della tecnologia stessa, dall’altro per il crescente livello di autonomia e flessibilità dei dispositivi robotici, i quali consentono di distribuire i costi d’installazione su una molteplicità di lotti di volumi ridotti. Un esempio è offerto dal settore delle macchine automatiche di confezionamento. Di solito, tali macchine, complesse e costose, sono rigide, quindi progettate per manipolare determinati tipi e formati di prodotti a velocità elevatissime. Nondimeno, sempre più, all’interno di linee automatizzate, funzioni di norma compiute da gruppi automatici rigidi sono ora compiute da robot integrati alle macchine automatiche, o comunque da dispositivi attuati da una molteplicità di motori elettrici, i quali, sebbene non riproducano le architetture robotiche tradizionali, ne implementano a tutti gli effetti i principi. Lo sviluppo della cobotica, cioè la collaborazione sicura tra robot e operatori umani, amplia ulteriormente lo scenario. Ad oggi, praticamente tutti i costruttori di robot offrono a catalogo robot collaborativi, e i costi non sono proibitivi: poche decina di migliaia di euro. Ulteriori vantaggi emergono dall’implementazione di architetture interconnesse dove le macchine comunicano tra di loro e con l’esterno (internet of things) e sono in grado di prendere autonome decisioni in funzione degli scenari percepiti, per adeguarsi ad una richiesta produttiva, rispondere ad un malfunzionamento, programmare una manutenzione, eccetera. Lo scenario che abbiamo di fronte è quello di un’intera fabbrica robot.
A che punto siamo in Italia a livello di conoscenza della materia?
Dal punto di vista accademico, la robotica italiana riveste un ruolo di primo piano a livello internazionale. È sufficiente considerare l’altissimo numero di ricercatori, affiliati a università e centri di ricerca italiani, che rivestono ruoli di primo piano all’interno dei comitati scientifici, comitati editoriali e società accademiche del settore; il numero di ricercatori formati da università e centri di ricerca italiani che lavorano all’estero in laboratori all’avanguardia, nei principali paesi industrializzati; il successo dei ricercatori italiani nei progetti competitivi europei. Tutto ciò è sintomatico di una realtà avanzata, ben connessa, in grado di produrre ricerca di qualità.
E a livello di risorse per le imprese, considerando che il nostro tessuto imprenditoriale è in larghissima parte costituito da PMI?
Vi è una sempre maggiore interazione del mondo accademico con quello industriale: l’accademia “si sporca le mani” più che in passato, e le imprese si rendono conto che, al di là dei luoghi comuni che troppo spesso distorcono in modo inappropriato il pubblico sentire, all’interno delle università vi sono professionalità, competenze e operosità. Paradossalmente, proprio il tessuto delle PMI può trarre i maggiori vantaggi da questa interazione. Laddove non è economicamente giustificabile la creazione di competenze e conoscenze aziendali specialistiche, l’interazione con i centri di ricerca può diventare strategica. Tali interazioni non sono così diffuse come, ad esempio, nel modello tedesco, ma la strada da percorrere è certamente questa. La chiave può essere l’investimento reciproco. Gli investimenti pubblici e privati in ricerca, sviluppo e formazione in Italia sono solo una piccola frazione di quelli di altri paesi industrializzati. Possiamo auspicare che gli investimenti pubblici aumentino in modo significativo, ma ciò richiederebbe un cambiamento epocale nelle politiche di spesa del nostro paese. Nondimeno, industria e centri di ricerca possono autonomamente co-investire per creare valore, mettendo a disposizione infrastrutture e competenze per realizzare obiettivi comuni. Nella mia regione, l’Emilia Romagna, vedo ottimi esempi in questo senso, e ottimi risultati.
In termini economici, strutture completamente – o quasi – automatizzate quali vantaggi porterebbero alle imprese?
L’articolo di copertina del numero di febbraio 2017 della rivista IEEE (Institute of Electrical and Electronics Engineers), Spectrum, è dedicato a imminenti “ghost ship”, ossia navi container completamente autonome e robotizzate destinate a coprire rotte commerciali oceaniche. I vantaggi saranno maggiore efficienza energetica, minori costi, maggiore sicurezza per merci e persone. Personale qualificato di stanza nei porti sarà in grado di gestire un’intera flotta in remoto, sostituendo il personale di bordo. Quest’esempio riporta un paradigma comune relativo al diffondersi dell’automazione: alcune tipologie di lavoro sono sostituite da altre che richiedono maggior qualificazione e competenze tecniche, soprattutto in ambito informatico. D’altro canto, in questo esempio specifico, è difficile credere che il bilancio netto in termini occupazionali possa raggiungere il pareggio.
Secondo dati riportati nel numero di ottobre 2016 della rivista ASME (American Society of Mechanical Engineers), Mechanical Engineering, la quale a sua volta riporta dati dell’US Bureau of Labor Statistics, dal 2000 ad oggi il settore manifatturiero americano ha perso il 29% della propria forza lavoro – meno 5 milioni di addetti –, mentre la produzione industriale è al contrario costantemente, sebbene leggermente, aumentata. La produttività media per lavoratore è passata da 337000$/anno nel 2000 a 484000$/anno nel 2015, al netto dell’inflazione. Si stima che, anche portando sul suolo americano la produzione di tutti i manufatti che oggi gli USA importano (per un valore di 800 miliardi di dollari annui), si creerebbero negli USA solo 1.6 milioni di posti di lavoro. In sostanza, anche azzerando gli effetti della globalizzazione produttiva, l’effetto negativo dell’incremento di produttività sui posti di lavoro in ambito manifatturiero non sarebbe scalfito. Secondo il Boston Consulting Group, citato nel numero di gennaio 2017 dalla rivista ASME Mechanical Engineering, nel 2025 il costo operativo di un robot di saldatura sarà di 2$/ora, mentre oggi un saldatore statunitense guadagna in media 25$/ora.
Dalla situazione che descrive emergono potenziali insidie sul fronte occupazionale. Bill Gates ha suggerito di promuovere una tassazione destinata ai robot che svolgono lavori umani. Addirittura un imprenditore visionario come Elon Musk mette in guardia dai pericoli, in senso occupazionale, che potrebbero arrivare dalla rivoluzione tecnologica. Perché, secondo lei, persone che non possono certo essere definite nemiche dell’innovazione, parlano in questo modo?
L’automazione avrà un impatto rilevante sul lavoro industriale, sui trasporti, sull’agricoltura – in realtà, ciò è già avvenuto nei paesi industrializzati –, nonché nel mondo dei servizi per l’acquisizione e processo delle informazioni, degli acquisti, dello scambio di beni e denaro. Il rapido sviluppo dell’intelligenza artificiale (deep learning) e quindi lo spostamento della frontiera dell’automazione sempre più all’interno della sfera delle prerogative umane non può che rendere l’impatto di tale processo ancora più marcato. È per altro innegabile che l’automazione creerà altri posti di lavoro caratterizzati da maggiore qualificazione e competenza. Non ho elementi per dire se il deficit sarà negativo, ma il dubbio è legittimo.
Insomma, corriamo dei rischi…
Le tensioni che attraversano le società industrializzate (gli USA in primis) sono un chiaro segno, a mio avviso, che la transizione verso l’era dell’automazione massiva può non essere indolore. A mio avviso, il minimo comun denominatore degli interventi che si leggono sul tema è lo stimolo di una competizione crescente tra lavoratori che avranno competenze adeguate per adattarsi ai nuovi scenari e coloro che non le avranno e risulteranno, quindi, “sconfitti”. Si suol dire che, in una competizione sportiva, l’importante è partecipare: è vero. Dover competere per il lavoro, però, è un’altra cosa. Il rischio di creare una frattura (non solo all’interno di un paese, ma su scala planetaria) tra un’elite di lavoratori “competenti” ed un massa di lavoratori “incompetenti” che lottano per la sopravvivenza è una preoccupazione seria e legittima, sulla base della quale è necessario governare le trasformazioni economiche, industriali e sociali in atto. Ma tale governo è nelle mani di uomini politici, imprenditori, economisti più che di scienziati e ingegneri.
Di recente il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione in cui si richiede alla Commissione di Bruxelles di intervenire in materia di “norme di diritto civile sulla robotica”, in particolare con la creazione di uno status giuridico per i robot e di un codice etico per gli ingegneri che li progettano. Come giudica queste posizioni?
In merito alla risoluzione “Civil Law Rules on Robotics” del Parlamento europeo del 16 febbraio, ed in particolare al paragrafo secondo cui “Robotics engineers should remain accountable for the social, environmental and human health impacts that robotics may impose on present and future generations”, ammetto che mi sembra bizzarro ed opinabile. Una scoperta scientifica non è né buona né cattiva. È l’uso che se ne fa che può essere l’uno o l’altro. E tale uso solitamente è nelle mani di uomini politici, imprenditori, militari molto più che di scienziati e ingegneri. Si pensi all’uso dell’energia nucleare. Chi è responsabile per gli usi nefasti, militari e civili, che ne sono stati fatti?