«Industria 4.0? Prima riorganizziamo il lavoro e il welfare» | T-Mag | il magazine di Tecnè

«Industria 4.0? Prima riorganizziamo il lavoro e il welfare»

Intervista a Giancarlo Pelucchi, responsabile Formazione e componente del Progetto Lavoro 4.0 della Cgil
di Fabio Germani

La “quarta rivoluzione industriale”? Precisiamo: «Oggi in Italia ci sono tratti di prima, seconda, terza e quarta rivoluzione industriale che convivono». Parlare di Industria 4.0 e automazione dei processi produttivi significa parlare dunque di tante altre cose, prima: distribuzione della ricchezza, welfare adeguato per chi perderà il lavoro a causa dell’ingresso dei robot nelle fabbriche o negli uffici, formazione per quanti l’impiego riusciranno a mantenerlo. In sintesi governare un processo che non possiamo prevedere in quanto tempo si compirà. «Si tratta – spiega a T-Mag Giancarlo Pelucchi, responsabile Formazione e componente del Progetto Lavoro 4.0 della Cgil – di affrontare una riorganizzazione che non riguardi solo l’introduzione di nuove tecnologie, ma anche un cambiamento radicale nel mondo del lavoro e nella gestione dei flussi, con le conseguenze che tutto questo avrà inevitabilmente sulle persone». Ad esempio – sostiene Pelucchi – non è tassando il lavoro svolto dai robot (come suggerito di recente da Bill Gates) che si potranno sciogliere tutti i nodi.

Anche in Italia si comincia a parlare di Industria 4.0
Industria 4.0 è però un termine importato su cui non c’è unanimità di lettura e interpretazione. Anche nel campo della ricerca viene declinato in modi differenti. Dal nostro punto di vista, della Cgil, siamo attenti all’impatto che avrà sull’occupazione e non solo la porzione “mangiata” dai robot. In ballo c’è una somma di fattori, uno dei quali è il periodo di crisi da cui forse siamo usciti, o forse no, che intanto ha tagliato tantissimi posti di lavoro, molto più dei robot. A seguito di una lunga crisi economica ed essendo questo un periodo di grandi rivolgimenti globali, gli scenari non sono prevedibili. Si tratta allora di affrontare una riorganizzazione che non riguardi solo l’introduzione di nuove tecnologie, ma metta insieme il cambiamento radicale nel mondo del lavoro, la gestione dei flussi e le conseguenze che tutto questo avrà inevitabilmente sulle persone: quelle che verranno sostituite dai robot, ma anche per quelle che resteranno a svolgere le proprie mansioni e per le quali tuttavia cambierà il modo di lavorare. Quindi sarà importante ragionare sulle competenze e sugli strumenti per evitare ulteriori tagli.

La ricetta, insomma, sarebbe anticipare il definitivo sviluppo della “quarta rivoluzione industriale”.
Anche in questo caso è doveroso precisare. Per quanto riguarda il nostro paese, si rilevano tratti di prima, seconda, terza e quarta rivoluzione industriale che convivono. E – paradossalmente – anche un ritorno diffuso di lavori di tipo schiavistico, non solo nelle campagne, ma spesso anche nei servizi e in pezzi dell’industria. Quindi non sappiamo se è veramente in atto una “quarta rivoluzione industriale”, quello che interessa capire è il processo di cambiamento e soprattutto – sempre dal punto di vista del sindacato – come agire per influire su quei cambiamenti.

E qual è l’approccio della Cgil al tema?
Non è di catastrofismo, ma neanche di ottimismo tecnologico. Quando ci dicono che cambierà tutto con la rivoluzione di Industria 4.0 – in verità siamo scettici anche sull’utilizzo del termine “rivoluzione”, perché è un’espressione seria, da utilizzare con cautela – nutriamo una certa diffidenza. Per questo abbiamo avviato un lavoro di analisi, ricerca e formazione dedicata. Ci interessa misurare cosa accadrà, da qui al 2030 ad esempio, e immaginare cosa potrebbe succedere grazie alla nostra azione organizzata di sindacato, un soggetto che rappresenta i punti di vista e gli interessi di chi lavora. Questo vale sia per quelli che verranno espulsi dai cicli produttivi, sia per quelli che resteranno a lavorare. Si prevede un considerevole aumento della produttività, seppure differente da settore a settore. Come verrà distribuito tale incremento di produttività? Si pone una domanda di redistribuzione, che dovrà riguardare tutte le dimensioni: la dimensione del reddito – a partire dalla dimensione del salario –, i tempi utilizzati per produrre e i saperi. I cambiamenti nelle attività avranno un impatto anche sui tempi e quindi sulla salute delle persone, ma soprattutto sui saperi.

Vale a dire?
Noi stiamo registrando enormi cambiamenti nei vari settori, nell’industria, nei servizi, nella pubblica amministrazione, ma non sempre riguardano tutti i luoghi di lavoro. Dove si osservano, però, sono sensibili, anche se non comprendono l’intero insieme dei lavoratori. Noi riteniamo che in questa fase ci sia da fare un ragionamento di alfabetizzazione, non solo digitale, in particolare per coloro che devono trovare un nuovo impiego. La promessa è stata: “Arrivano i robot, sostituiscono un po’ di persone, ma ne verranno assunte molte di più perché genereranno nuovo lavoro”. È una promessa che sentiamo tante volte quando c’è un’innovazione, che viene brandita per evitare conflitti. Siccome non è una promessa del tutto priva di fondamento noi chiediamo che venga tradotta in un programma, come peraltro abbiamo chiesto unitariamente al governo. Di fronte ad un progetto si convocano le parti sociali, si illustra il passaggio e come si intende procedere dato che non può essere fatto con gli strumenti del passato. Se sono vere le premesse di Industria 4.0, cambia il lavoro, ma deve cambiare anche il welfare.

A cominciare dalla formazione, suppongo…
In Italia abbiamo un importante precedente quando negli anni ’70, dopo una grande stagione di contrattazione, furono concordate le 150 ore, retribuite dalle imprese per permettere ai lavoratori di crescere di livello di studio e di certificazione delle competenze. La misura interessò migliaia di persone che erano emigrate dal Sud al Nord per andare in fabbrica e che grazie alle 150 ore erano riuscite a portare a casa il diploma della scuola elementare o della scuola media. Il tema del welfare-formazione può essere, anche oggi, costruito attraverso un mix di intervento dello Stato – leggi, finanziamenti del MIUR – e con la contrattazione. Un caso interessante è il recente accordo unitario dei metalmeccanici che introduce del tempo destinato alla formazione dei lavoratori: una quantità a nostro avviso ancora insufficiente, ma è un primo passo importante. All’epoca, negli anni ’70, si trattava di alfabetizzazione, oggi di alfabetizzazione digitale. Una parte di questa attività deve essere svolta anche nelle relazioni tra le parti sociali e lo Stato, con l’ausilio di strumenti che possono essere contrattuali o fondi interprofessionali che servano a far crescere il livello del lavoratore e a certificare l’avvenuto progresso. Ma spesso le imprese sono contrarie alla certificazione, perché se si assumono delle persone per fare un certo tipo di lavoro, e dopo un percorso formativo queste ottengono un bagaglio di conoscenze e competenze superiore, è naturale chiedere che venga adeguato il loro riconoscimento nell’inquadramento.

Allargando l’orizzonte, quali altri aspetti dovrebbero essere migliorati in termini di welfare?
Il cambiamento non può essere solo “tagliare”. Si succedono i governi, cambiano le retoriche, ma la sostanza è che il welfare viene tagliato: un pezzettino di sanità alla volta, un pezzettino di sostegno al reddito alla volta. Non c’è stata una misura efficace che sia durata più di sei mesi, ma Industria 4.0 obbliga ad abbandonare questa strada. I cambiamenti non avverranno con un meccanismo on-off, non è che a una certa data l’industria da 3.0 diventerà 4.0. Non esiste un processo al mondo in cui il passaggio sia automatico, potrebbero servire dieci, quindici, o vent’anni. Allo stesso tempo, però, i cambiamenti sono continui, non è più come durante il fordismo: a maggior ragione gli strumenti dovranno essere semplici, certi e duraturi.

Comincia a diffondersi il welfare aziendale…
Vero, ma sono anni, da prima ancora che si cominciasse a parlare di Industria 4.0, che il sindacato contratta in Italia – come in tutta Europa – forme integrative sia di pensione che di sanità. In questo modo i dipendenti di alcune categorie – spesso sono fondi nazionali, altre volte sono fondi aziendali – hanno un “di più” sulle pensioni o sulla sanità. In realtà non sono strumenti particolarmente nuovi, ma rodati, che funzionano. Tuttavia, essendo una previdenza integrativa, o una sanità integrativa, non possono essere sostitutive di quelle pubbliche. Nella cultura del sindacato europeo, e di quello italiano in particolare, non ci si è limitati a occuparci dei diritti e delle tutele delle persone nei luoghi di lavoro, ma nella società. Ci deve essere quel “di più” che può essere sostenuto dalle imprese o nei contratti nazionali, ma non si può lasciare il welfare integrativo solo alle aziende, che in Italia sono perlopiù di piccole e piccolissime dimensioni. Significherebbe aprire al mercato delle polizze private che sono – rispetto ai percorsi integrativi basati sui numeri delle grandi imprese – piuttosto penalizzanti. Non bisogna perciò abbandonare l’idea che alcune cose, quando devono essere integrative appunto, si possono ottenere anche nei contratti nazionali perché ciò permetterebbe al lavoratore di un settore, qualsiasi sia la dimensione dell’impresa, di avere un beneficio dovuto all’economia di scala e alla natura mutualistica del welfare contrattato.

Tornando ai robot, Bill Gates ha proposto di tassare il lavoro delle macchine.
L’argomento delle tasse è sempre un argomento spinoso, in Italia soprattutto. La via fiscale non è necessariamente quella più efficace e comunque non può limitarsi al ragionamento sui robot.

In molti, però, ci hanno visto una possibile apertura al reddito di cittadinanza…
Non siamo contrari all’ipotesi, ma va pure detto che il reddito di cittadinanza non muta una virgola dei rapporti di forza tra i possessori di capitali e chi lavora, dipendenti, precari, autonomi, autonomi indotti. Bill Gates, ad esempio, è uno degli uomini più ricchi del mondo, ma è anche uno di quelli che impiega meno persone rispetto ad altre grandi imprese. Si è interrotto, da almeno 30 anni, il meccanismo per cui i grandi possessori di capitali sono grandi datori di lavoro, non solo a causa della finanziarizzazione dell’economia, ma per la composizione organica del capitale: i ricchi non sono più coloro che danno lavoro. Più della tassa sui robot, ci interesserebbe una tassa sui capitali, la progressività della tassazione, non le tasse flat. Un ragionamento che tenga conto, insomma, degli stock di capitali oltre ai flussi. Ci poniamo, come sindacato, il problema di come tentare di pareggiare i poteri contrattuali tra chi lavora e chi fa l’imprenditore. Per definizione il singolo imprenditore è più forte del singolo lavoratore: in qualche modo il rapporto va riequilibrato, molto più in una fase di transizione come questa. Può essere utile un discorso sul reddito di cittadinanza, ma non è l’unico. Coloro che lavorano nelle imprese magari vorrebbero prima vedere aumentare il loro reddito da lavoro…

GALASSIA LAVORO

@fabiogermani

 

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