Commercio: in crescita le misure protezionistiche
Un rapporto della Commissione europea ha quantificato il numero delle misure protezionistiche adottate nel 2016. Il dato è in crescita – nel 2016, complessivamente, a livello mondiale, ne sono state introdotte 36 –, ma in linea con un trend osservato dal 2008. Specialmente tra i Paesi del G-20.
Pur essendo un ‘argomento’ attuale – nei giorni scorsi, la Banca centrale europea lo ha inserito tra i principali fattori di rischio al ribasso per la crescita mondiale –, il protezionismo non è una novità. Un recente report del SACE osserva che i diversi Paesi del mondo hanno introdotto numerose misure protezionistiche – ne esistono parecchie come i dazi commerciali all’export, all’import e all’anti-dumping… –, nel corso degli ultimi anni. Soltanto tra il 2008 e il 2016 ne hanno adottate oltre 3.500. “Quasi un quarto di queste – osserva il SACE – impongono l’obbligo di avere almeno una certa percentuale di un prodotto o servizio realizzato nel Paese, soprattutto per prodotti elettronici e veicoli”.
A ricorrere spesso alle misure protezionistiche sono stati soprattutto i Paesi del G-20, la sigla che raccoglie le venti principali economie mondiali, a partire dagli Stati Uniti – quello statunitense è il terzo mercato di destinazione dell’export italiano – che ogni quattro giorni ne hanno introdotta una (complessivamente l’Italia ne ha adottate 207 dal 2008 al 2016).
E sono proprio gli Stati Uniti a rappresentare una delle preoccupazioni principali. Oltre a sottolinearne l’importanza attuale – gli States tra i primi mercati di sbocco per le export italiano –, una nota del Centro studi Confindustria prevede un’ulteriore crescita per le esportazioni verso gli Stati Uniti dei prodotti BBF, acronimo che indica i prodotti “belli e ben fatti”, che rappresentano il 20% delle export manifatturiere italiane e hanno un prezzo superiore del 20% rispetto ai concorrenti.
Nel 2020 i BBF esportati potrebbero raggiungere i 13 miliardi di euro circa (2,8 miliardi in più rispetto ai 9,8 miliardi del 2016). Una somma stimata in un primo scenario ‘prudente’, a quote di mercato costanti per l’Italia. In un secondo scenario ‘coraggioso’, in cui il CSC ipotizza che il BBF italiano, almeno nei principali Stati federati, riesca a erodere quote ai concorrenti più virtuosi, si arriva ad oltre 5 miliardi in più rispetto al 2016.
A crescere, in entrambi gli scenari, saranno tutti i comparti (alimentare, abbigliamento tessile-casa, calzature, arredamento, occhialeria, oreficeria-gioielleria), anche se a ritmi differenti.
C’è un rischio, però. Prossimamente gli Stati Uniti potrebbero adottare nuove misure protezionistiche, anche se il CSC osserva che (probabilmente) le imprese del BBF dovranno confrontarsi con inasprimenti più “sottili” – certificazioni ulteriori, allungamento dei tempi, nuovi passaggi burocratici –, che non hanno un impatto sulla domanda, ma possono rendere oggettivamente più complesso esportare un prodotto, incentivando una presenza diretta sul territorio statunitense.
Nell’ipotesi che i dazi medi pagati dalle imprese italiane tornino ai livelli del 1989, l’import degli Stati Uniti dall’Italia nel 2022 risulterebbe di 1,4 miliardi inferiore rispetto allo scenario base (11,6 invece di 13 miliardi nel 2022).