Sei mesi di Trump alla Casa Bianca
Criticato. Controverso. Osteggiato. Tutto e il contrario di tutto. In due sole parole: Donald Trump. Sono passati poco più di sei mesi dall’insediamento del 45esimo presidente degli Stati Uniti alla Casa Bianca. Una vittoria elettorale, la sua, che stupì il mondo. E che ha lasciato subito strascichi evidenti, tra proteste, manifestazioni e pareri discordanti. Eppure Donald Trump mantiene dalla sua una porzione di elettorato che crede fermamente nelle sue scelte, uno zoccolo duro pronto a scommettere ancora oggi che sia lui l’uomo giusto per avversare l’establishment di cui una parte importante della middle class americana si fida sempre meno. Da qualche settimana Trump è costretto a stare sulla difensiva a causa del Russiagate, l’inchiesta dell’intelligence statunitense su possibili interferenze russe durante la campagna elettorale volte a dirottare l’esito del voto a favore dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Nel frattempo si registrano frizioni con Mosca, soprattutto sulla crisi siriana. Incoerenze e contrasti appaiono all’ordine del giorno. Con Daniele Fiorentino, professore di Storia e istituzioni degli Stati Uniti d’America all’Università degli Studi Roma Tre, che T-Mag interrogò già prima dell’election day dell’8 novembre, abbiamo fatto il punto della situazione su pregi, difetti e le misure fin qui adottate dal presidente che ha sdoganato una volta per tutte i protocolli e che ama – oltremodo – il linguaggio istantaneo e confidenziale di Twitter.
Professor Fiorentino, partiamo dal Russiagate. Trump sembrava in un primo momento essere indagato per intralcio alla giustizia, lo stesso presidente aveva dichiarato qualcosa di simile. In seguito uno dei legali ha precisato che non lo è e negli ultimi giorni ci sono stati sviluppi che tirerebbero in ballo anche l’ex presidente. Al di là di questo, quali ripercussioni – politiche e non – potranno derivare dalla vicenda? Esistono, secondo lei, i presupposti per una procedura di messa in stato d’accusa?
Va detto innanzitutto che la procedura di Impeachment, regolata dalla Costituzione, è principalmente un atto politico e in parte anche giudiziario. Non è facile mettere sotto inchiesta un presidente e come si sa questo è avvenuto solo altre tre volte, anzi due, visto che Nixon non arrivò mai al giudizio finale poiché si dimise prima di essere effettivamente messo sotto impeachment. Gli altri due, Clinton, e Andrew Johnson nell’Ottocento si salvarono per un pelo. Per capire se ci sono gli estremi per procedere bisognerà rivolgere l’attenzione a due fattori principali: il primo è se effettivamente il presidente ha mentito sui legami con la Russia e ha cercato di insabbiare le inchieste in tal senso; l’altro è la volontà politica del Congresso che è responsabile della procedura. I Repubblicani hanno un’ampia maggioranza e saranno loro a dover determinare prima di chiunque altro se perseguire o meno Trump. Credo che al momento a loro non convenga perché creerebbero una forte spaccatura non solo nel partito ma nel Congresso stesso. Tuttavia, con il passare dei mesi e con l’avvicinarsi delle elezioni di mid-term nel 2018, quando tutta la camera e un terzo del Senato verranno rinnovati, se Trump dovesse perdere consensi e credibilità, alcuni potrebbero trovare più conveniente sbarazzarsene o perlomeno metterlo in un angolo; in questo caso allora l’impeachment potrebbe essere una strada percorribile. Credo comunque si sia ancora molto lontani da una scelta in questo senso a meno che non emergano fattori ed elementi nuovi, cosa che non mi stupirebbe vista la frequenza e rapidità di colpi di scena cui ci sta abituando questa amministrazione.
A questo punto le chiederei di esprimere un giudizio sui primi sei mesi di amministrazione Trump. Quali misure definirebbe positive e quali ritiene invece negative?
Quello che abbiamo visto sin qui dell’amministrazione Trump è un po’ quello che ci si aspettava: sostanzialmente una mancanza di organizzazione, coordinamento e di un programma vero e proprio con obiettivi precisi. Gli unici veri obiettivi erano quelli di smantellare quanto fatto da Obama, soprattutto la riforma sanitaria, l’ambiente, e la tassazione progressiva ridando centralità alla classe media, soprattutto quella urbana della grande industria e quella delle aree più periferiche della nazione. Qui c’è indiscutibilmente una parte della popolazione che si sente dimenticata e lasciata indietro da chi governa e muove le leve del potere. La campagna elettorale di Trump aveva fatto promesse e creato grandi aspettative raccogliendo anche molti consensi. Finora non si è fatto però molto in questo senso, se non cercare di ancorare alcune grandi aziende con le loro fabbriche sul territorio statunitense, cosa che però non sta dando i risultati auspicati. Direi un bilancio sostanzialmente negativo in politica interna. Non che la politica estera vada molto meglio. È abbastanza evidente che manca un disegno e così si passa da un’iniziale riavvicinamento con la Russia di Putin a una presa di distanza netta anche a causa dell’inchiesta in atto sui rapporti del presidente, e di alcuni suoi stretti collaboratori, con grandi imprenditori russi e anche direttamente con l’amministrazione. Gli unici importanti sviluppi in direzione positiva si sono visti in qualche misura sulla politica in Medio Oriente, forse l’unica vera svolta di questa amministrazione, con una posizione aperta ma ferma nei confronti dell’Arabia Saudita e di alcuni emirati, una marcia in senso contrario con l’Iran e interventi in Siria, che però lasciano anch’essi molte questioni aperte. Con l’Europa e la Cina le scelte del presidente sembrano chiare ma poi anche in questi casi la politica è erratica. Manca appunto un Grand Design, come si dice in inglese.
Con Trump presidente l’America sta assumendo una posizione più isolazionista rispetto al recente passato, anche più di quanto accaduto in determinati casi sotto l’amministrazione Obama. Penso al ritiro dall’accordo di Parigi sul clima, gli ambigui rapporti con i russi (suoi e di alcuni stretti collaboratori), le giravolte e le contraddizioni nei confronti di Pechino, gli strappi – seppure solo dialettici – con la Germania e Angela Merkel, le rinegoziazioni di precedenti accordi con i vicini nordamericani. Al tempo stesso, però, l’America continua ad essere attore indispensabile per risolvere le controversie mediorientali e contrastare il terrorismo di matrice islamica, temi su cui il dialogo con l’Europa e in definitiva con Mosca è necessario oltre che opportuno. Può aiutarci a capire meglio le mosse fin qui osservate in politica estera?
Come dicevo prima a questa amministrazione manca appunto una grande strategia. Come altre volte in passato Trump ha puntato molto sull’attenzione alle vicende interne proclamando di voler dare priorità ai cittadini americani, to make America great again come recitava il suo slogan in campagna elettorale. In realtà gli Stati Uniti non possono e non vogliono del tutto tirarsi fuori dalla politica internazionale. Ci sono troppi interessi in gioco e troppe variabili incerte che rischierebbero di penalizzare il paese in caso di un vero ripiegamento interno in senso isolazionista. Chiariamo subito una cosa: gli Stati Uniti non sono stati mai davvero isolazionisti, soprattutto a partire dalla fine dell’Ottocento. Hanno troppi interessi e investimenti nel mondo per poterselo permettere e tutto sommato non ne hanno nemmeno l’intenzione. Semmai in alcuni periodi si è trattato di un parziale disimpegno. Quanto alle questioni che enumera ci vorrebbe un’analisi lunga e approfondita per spiegare tutto, ma in sintesi Trump vorrebbe ridare centralità e potere agli Stati Uniti a livello internazionale senza però portarne le conseguenze, “responsabilizzando” i partner e riducendo la spesa americana nelle questioni internazionali. Gli “strappi” sono a volte “coups de theatre” che servono più a coltivare una certa immagine interna del presidente che a essere efficaci nei rapporti con i partner internazionali. Non voglio ripetermi ma quello che vediamo è il risultato della mancanza di un Grand Design, probabilmente aggravato anche da considerazioni che hanno a che fare più con gli interessi economici e commerciali Usa che con ponderate scelte strategiche. La Cina è un partner troppo importante, da una parte Trump vuole mantenere un rapporto finanziario e commerciale fondamentale per gli Stati Uniti, dall’altra vuole mostrare ai suoi elettori che sa usare il pugno duro con chi mette in discussione i valori fondamentali della democrazia. In qualche modo questo avviene anche con Mosca. L’atteggiamento nei confronti della Germania ha molto a che fare con una richiesta dei suoi elettori nei confronti di un’Europa percepita come una spugna che ha solo ricevuto dall’America senza assumersi le proprie responsabilità. Nonostante i tanti proclami quello con l’Europa è un rapporto che continuerà inevitabilmente nel prossimo futuro anche se con qualche strappo e ricucitura.
In che modo può essere letta la recente decisione dell’amministrazione Trump di adottare misure più restrittive nei confronti di Cuba dopo la recente apertura concessa da Obama?
Trump e i suoi elettori sono legati a un’immagine da guerra fredda dei rapporti con Cuba. Credo che una delle motivazioni che lo ha spinto a prendere questa posizione sia proprio il fatto che l’apertura fosse stata avviata da Obama. Trump fin qui si è definito essenzialmente come l’anti-Obama e l’uomo anti-establishment. L’apertura verso Cuba rappresenta davvero un’importante novità che proietta la politica delle relazioni interamericane, e in qualche misura internazionali, verso il futuro. Obama era stato capace di svincolarsi dalle catene della Guerra fredda e dai modelli esistenti, retaggio di un passato ormai superato, comprendendo quanto fossero mutati gli equilibri nello scenario regionale. Trump sembra invece ancorato a un ruolo degli Stati Uniti legato all’egemonia regionale ma non in chiave di prospettive e sviluppi futuri quanto piuttosto di contrapposizione ideologica fondata però su schemi del passato. Non sembra insomma riconoscere che sono cambiate molte cose in questi ultimi venti anni e in particolar modo dopo l’11 settembre 2001.
Sul fronte interno Trump pare stia incontrando qualche difficoltà. Del muro al confine con il Messico si è tornato a parlare di recente, ma sembrava essere uscito dall’agenda nelle ultime settimane. Poco tempo fa il presidente ha annunciato la riforma fiscale per agevolare le imprese statunitensi al fine di incentivare l’occupazione e c’è poi la volontà di cancellare l’Obamacare, ma le cose non stanno procedendo ad un passo spedito anche se c’è chi giura che questa potrebbe essere una settimana decisiva. A suo avviso, comunque, riuscirà a mantenere le promesse fatte in campagna elettorale?
Non credo proprio e questo forse lo sapeva persino lui. Quelle promesse erano legate alle paure di una classe medio-piccola che chiedeva di essere ascoltata e di trovare un interlocutore da portare a Washington che non fosse un rappresentante dell’establishment. Non che Trump lo sia davvero ma questa è l’immagine che ha proposto di sé: un outsider che si dà alla politica per il bene dei suo concittadini. Quando faceva quelle promesse, appunto da campagna elettorale, Trump non si è mai interrogato veramente sugli effettivi poteri del presidente. Parlava come se, una volta al potere, avrebbe avuto mano libera per fare tutto quel che voleva. A dire il vero non sono nemmeno sicuro che le volesse fare davvero tutte. Ma il sistema costituzionale americano funziona diversamente e impone delle procedure di cui l’attuale presidente farebbe volentieri a meno. Quella che probabilmente porterà in porto è la riforma fiscale. Con la cancellazione di Obamacare è riuscito solo a costi politici enormi e con una decisione che ha in qualche modo mutato le procedure di approvazione delle leggi, cioè facendo a memo di una maggioranza qualificata. Il muro col Messico, che peraltro in molte sue parti esiste già, credo che rimarrà uno slogan da campagna elettorale.
Sondaggi alla mano, Trump sta subendo un calo costante di popolarità da diverso tempo. Come si può spiegare questa “contraddizione” rispetto al risultato elettorale di non molti mesi fa? Oppure, considerando che la sua avversaria Hillary Clinton aveva ottenuto consensi maggiori nel voto popolare, è una situazione che rientra tra le cose da mettere in conto a sei mesi dal suo insediamento alla Casa Bianca?
Più che una vittoria di Trump le elezioni del 2016 sono state una débâcle del Partito Democratico e una disfatta di Hillary Clinton. Il consenso del presidente non è mai stato alto e come sappiamo il voto popolare è andato in grande maggioranza a Clinton. Trump ha un suo elettorato fedele che è però minoritario negli Stati Uniti e che adesso comincia a vedere molte delle promesse della campagna elettorale non realizzate. Tuttavia, c’è uno zoccolo duro che rimarrà vicino al presidente, anzi che attribuirà ogni sua sconfitta alla volontà dei “poteri forti” a Washington che non vogliono un populista alla Casa Bianca. In fondo la grande abilità di Trump è stata quella di creare una narrazione che funziona bene per qualunque evenienza: quando riesce a ottenere un successo politico è tutto merito suo, quando invece subisce una sconfitta o una battuta d’arresto la colpa è di chi non vuole che lui e il popolo americano riescano a far trionfare i principi di libertà e democrazia di cui lui è ormai l’unico vero interprete. È ovvio che una narrazione di questo genere funziona fintanto che la gente ci crede e si identifica con il leader, ma gli americani hanno imparato col tempo, e soprattutto a partire dagli anni settanta con Nixon e il Watergate, che non tutto quel che il presidente dice o fa è necessariamente giusto e vero. Bisognerà aspettare il procedere degli eventi per capire quale sarà il vero destino del presidente, di questa amministrazione e degli Stati Uniti in generale. Io credo che comunque vadano le cose non verrà rieletto per un secondo mandato.
[…] questioni spinose per Trump non sono poche e i primi sei mesi di presidenza si sono rivelati più ostici di quanto lui stesso potesse immaginare. La scorsa settimana non è riuscito ad ottenere i […]