“Pyongyang? Sua strategia coerente”
Il 3 settembre 2017 – a mezzogiorno circa, ora locale –, il Nuclear Weapons Institute della Corea del Nord ha condotto un test nucleare, nel sito militare di Punggye-ri. La bomba esplosa è la sesta dall’inizio del programma nucleare nord-coreano ed è anche la più potente mai testata. Mercoledì 12 settembre, 38north.org – sito che monitora quanto avviene in Corea del Nord – ha rivisto le stime sulla potenza della bomba, alzandole fino a 250 chilotoni. Quanto basta per rendere la regione ancora più instabile, dopo i test missilistici condotti da Pyongyang nei mesi scorsi.
Con l’opzione militare difficilmente percorribile – il presidente statunitense Donald Trump ha minacciato l’intervento, salvo poi ripensarci –, la comunità internazionale cerca di mettere sotto pressione il governo nord-coreano in altri modi.
Nella notte tra lunedì e martedì, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato all’unanimità le nuove sanzioni contro la Corea del Nord. Le sanzioni – embargo all’export di prodotti tessili, divieto di rilasciare nuovi visti per i lavoratori nord-coreani all’estero e taglio del 30% all’import di petrolio – costeranno al regime nord-coreano 1,3 miliardi di dollari. Solo l’opposizione di Russia e Cina hanno impedito una risoluzione più pesante. Gli Stati Uniti sono stati accontentati così solo parzialmente ed hanno espresso il loro malcontento apertamente: Trump ha definito le sanzioni “un passo molto piccolo”. Tra le altre cose, Washington chiedeva il congelamento dei beni all’estero del dittatore, Kim Jong-un, e il blocco totale all’export nordcoreano di petrolio.
La prossima mossa spetta alla Corea del Nord. Cosa farà, Kim? Stando alla propaganda, molto altro: mercoledì, il ministero degli Esteri di Pyongyang ha annunciato che verranno “raddoppiati gli sforzi” sul programma nucleare.
T-Mag ha intervistato Marco Milani, post-doctoral research fellow al Korean Studies Institute dell’University of Southern Carolina, per cercare di capirne qualcosa in più, su cosa sta succedendo, sul perché e sui possibili sviluppi.
Stiamo assistendo ad un’escalation nell’area coreana: il regime di Pyongyang si è dotato di armi sempre più potenti e pericolose. A cosa dobbiamo questo dinamismo del regime nord-coreano? Quali sono – sempre se è possibile individuarli, ovviamente – gli obiettivi di Kim Jong-un? Perché ha deciso di accelerare con dimostrazioni di forza sempre più frequenti proprio in questo momento, c’è una ragione precisa?
La strategia nucleare di Pyongyang rientra pienamente in quelle che sono le linee guida politiche del leader Kim Jong-un, il quale sta continuando a perseguire tale strategia in maniera coerente e costante sin dall’avvio della propria leadership. La politica del byungjin – sviluppo parallelo dell’arsenale nucleare e dell’economia – si appoggia in maniera determinante sul nucleare, che ormai non è soltanto una garanzia di sopravvivenza del regime, ma anche un’importante leva negoziale in caso di negoziazioni ed una vera e propria componente dell’identità stessa del regime. Gli obiettivi del regime sono anche e soprattutto di natura politica: in primo luogo il riconoscimento da parte della comunità internazionale della Corea del Nord come potenza nucleare. Fermo restando che la questione di garantire la sopravvivenza del regime era ed è ancora cruciale. In questo momento Kim Jong-un sa di essere in una posizione di relativa forza, anche a causa della totale inattività della comunità internazionale – con gli USA in testa – degli ultimi anni, che ha permesso a Pyongyang di proseguire in maniera indisturbata nell’acquisizione e perfezionamento di tecnologie nucleari e missilistiche. Inoltre, la Corea del Nord è convinta che le dimostrazioni di forza possano darle maggiore potere negoziale in un eventuale futuro tavolo diplomatico. Infine, la retorica e le azioni di forte contrapposizione messe in atto dagli USA, ma anche dalla Corea del Sud, spingono Pyongyang in questa direzione: la Corea del Nord risponde alla pressione esercitando a propria volta pressione, e in questo il regime è maestro.
Naturalmente il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non ha accolto con favore gli ultimi sviluppi, ribadendo più volte che ogni opzione è sul tavolo. Anche quella militare, dunque. Ritiene la retorica di Trump matura rispetto all’escalation delle ultime settimane o troppo affrettata, magari lasciando più tempo alla Cina per mediare?
Credo che le risposte bellicose di Trump siano da considerarsi reazioni affrettate; tanto è vero che spesso vengono poi ridimensionate dal Segretario di Stato Tillerson o altri membri dell’amministrazione. Come detto, con Pyongyang rispondere alla pressione con ulteriore pressione storicamente non ha mai pagato. Probabilmente una risposta più meditata sarebbe più utile. In questo senso, più che lasciare tempo alla Cina, bisognerebbe cercare di lavorare di più in concerto con Pechino. Il programma nucleare nordcoreano è diretto – politicamente più che militarmente – agli USA e una soluzione deve essere trovata nella relazione fra Washington e Pyongyang; lasciare che sia la Cina a risolvere il problema nordcoreano, come sostenuto da Trump a più riprese non credo sia la strada giusta. Detto ciò, Pechino ha sicuramente delle forti leve, soprattutto economiche, sulla Corea del Nord e anche una conoscenza del paese che agli USA manca; può quindi giocare un ruolo chiave, ma non gli si può delegare in toto la risoluzione della questione. Lavorare assieme alla Cina può però essere una strada percorribile, soprattutto nell’ottica di limitare le differenze di priorità strategiche che Washington e Pechino hanno in relazione a dossier nordcoreano.
Quanto pesano sulla situazione attuale le decisioni delle amministrazioni che hanno preceduto Trump alla Casa Bianca? Da quando l’allora presidente statunitense George W.Bush inserì la Corea del Nord nell’elenco dei Paesi dell’Asse del Male, cosa è cambiato? Perché gli Stati Uniti hanno preferito concentrarsi su altri dossier – pensiamo all’Iran e l’Iraq –, lasciando la Corea del Nord in disparte?
La politica americana verso la Corea del Nord degli ultimi anni ha un peso enorme sulla situazione attuale. L’accordo del 1994 aveva congelato il programma nucleare della Corea del Nord e, con l’aiuto della politica inter-coreana cooperativa del presidente Kim Dae-jung, ridotto notevolmente la tensione sulla penisola. Il discorso sullo Stato dell’Unione del gennaio 2002 ha cambiato decisamente le cose, e ancora di più l’invasione dell’Iraq (e successivamente della Libia), la quale ha convinto il regime di Pyongyanang delle velleità di regime-changing americane. Da quel momento l’accelerazione del programma nucleare è stata decisa e non si è più tornati indietro. Anche perché il forum negoziale multilaterale dei Six Party Talks si è rivelato pressoché inutile in tal senso. L’amministrazione Obama, escluse labili e temporanee aperture, ha sposato la cosiddetta ‘pazienza strategica’ – che io personalmente considero una contraddizione in termini, in quanto ‘aspettare e vedere che succede’ in tale situazione non mi è sembrata una scelta molto strategica – la quale consisteva sostanzialmente nel disinteressarsi del problema, salvo svegliarsi sporadicamente in occasione di test missilistici o nucleari per condannarli e sanzionarli. Questa mancanza di strategia attiva ha garantito a Pyongyang il tempo necessario per proseguire sulla propria strada, fino al punto in cui la de-nuclearizzazione non sembra più essere una opzione perseguibile in maniera credibile. La Corea del Nord è stata lasciata in disparte da Washington sia perché non rientrava fra le priorità della War on terror di Bush, sia per questioni di opportunità politica. Il Presidente Obama era cosciente della difficoltà del dossier, e probabilmente ha preferito concentrarsi su questioni che avrebbero potuto portare a risultati tangibili – vedi Iran e Cuba – lasciando la cosiddetta ‘patata bollente’ al proprio successore.
Russia e Cina. I due governi hanno ribadito più volte la necessità di seguire la via del dialogo. Per Putin, le sanzioni sono completamente inutili. Entrambi vogliono evitare un conflitto militare nella penisola coreana. Hanno qualche possibilità di convincere il dittatore nordcoreano, Kim Jong-un, a fare un passo indietro? O ormai possiamo considerare il regime fuori controllo?
Credo che ‘fuori controllo’ non sia la definizione più adatta, dal momento che rimanda ad una narrativa di ‘irrazionalità’ del regime che io sinceramente non vedo. Kim Jong-un persegue una strategia chiara e coerente, e trovo curioso quando gli osservatori internazionali si stupiscono per un nuovo lancio o un nuovo test nucleare. Sicuramente si tratta di una strategia pericolosa, illegale – se consideriamo le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza – e che non piace alla comunità internazionale, ma sicuramente non è irrazionale. Se consideriamo il regime ‘fuori dal controllo di altre potenze esterne’ allora la risposta è affermativa. Ma in realtà Cina e Russia non hanno mai avuto un pieno controllo sulle dinamiche di potere a Pyongyang, neanche durante gli anni della Guerra fredda. Probabilmente è ancora possibile costruire un tavolo negoziale – mentre convincere Kim Jong-un ad un passo indietro unilaterale la considero un’opzione decisamente più improbabile – a patto che ci si renda conto delle condizioni esistenti attualmente sul terreno, eliminando l’opzione de-nuclearizzazione almeno per il momento e provando a seguire un approccio graduale come quello del freeze-for-freeze proposto dalla Cina alcuni mesi fa e rifiutato dagli USA (temporanea sospensione di test missilistici e nucleari in cambio della sospensione delle esercitazioni militari congiunte USA-Corea del Sud).
La Corea del Sud. Qual è l’atteggiamento del governo di Seoul di fronte ad una minaccia così concreta e (ovviamente) vicina? In campagna elettorale il presidente sudcoreano, Moon Jae-in, aveva ribadito la necessità di dialogare con il vicino del nord. Ha cambiato idea o è rimasto fedele alla sua linea?
La linea di Moon è rimasta piuttosto costante dal momento in cui è entrato in carica. Durante la campagna elettorale si erano aperte prospettive di dialogo e riavvicinamento, che però non si sono concretizzate dopo le elezioni. L’idea di perseguire una politica del dual-track, con da un lato la pressione per la de-nuclearizzazione e dall’altro l’impegno per la cooperazione inter-coreana, è sempre stata fallimentare. E in realtà non si allontana molto dalla Trustpolitik elaborata da Park Geun-hye, che è naufragata subito dopo il suo insediamento. L’idea di base di dividere i due dossier è probabilmente corretta, ma Moon fin da subito si è posto in prima linea nel condannare e sanzionare l’attivismo nucleare e missilistico nordcoreano. Ovviamente questo atteggiamento ha spinto Pyongyang a rimandare al mittente tutte le offerte di dialogo e cooperazione. In questa situazione gioca un ruolo fondamentale anche l’alleanza fra USA e Corea del Sud, in passato messa alla prova dai tentativi di apertura verso il Nord di Seoul. Durante la campagna elettorale uno degli slogan lanciati da Moon era ‘saper dire di no agli Stati Uniti’, lasciando quindi presagire la possibilità di una politica inter-coreana maggiormente indipendente. In realtà, soprattutto dopo la visita di Moon a Washington a fine giugno, è emerso come la Corea del Sud si sia allineata alla politica americana piuttosto che il contrario, sebbene lo stesso Presidente sudcoreano avesse sostenuto di aver convinto Trump della bontà del proprio approccio. Una strada alternativa sarebbe quella di mantenere un basso profilo su queste problematiche, lasciando che sia Washington ad esporsi in prima linea, e concentrarsi sul miglioramento delle relazioni inter-coreane. Le motivazioni sono diverse: in primo luogo, come detto, il programma nucleare parla agli USA e non a Seoul, quindi esporsi in prima linea nel condannare e sanzionare è inutile e controproducente, sarebbe forse più utile migliorare le relazioni con Pyongyang e inserirsi come facilitatore del dialogo in un secondo momento, sfruttando appunto i buoni rapporti costruiti, come accaduto per esempio fra il 2005 e il 2007 sotto la presidenza di Roh Moo-hyun. Inoltre, l’arsenale nucleare non cambia in maniera sostanziale l’equilibrio sulla penisola: Seoul, una metropoli di 12 milioni di abitanti, che salgono a oltre 20 se si considera tutta l’area urbana, è situata a soli 60 km dal confine e dalle migliaia di pezzi di artiglieria nordcoreani lì schierati. Il potenziale di distruzione e vittime di un eventuale attacco convenzionale sarebbe già di per sé altissimo. Il programma nucleare e missilistico è può quindi essere visto soprattutto come un deterrente contro possibili attacchi americani al territorio nordcoreano, più che un’arma di aggressione contro Seoul. Credo quindi che insistere su un discorso legato alla dual-track non possa portare grossi benefici né per le relazioni inter-coreane, né per la questione nucleare.
Infine, una domanda sullo scacchiere internazionale. Tra i paesi coinvolti, quale potrebbe trarre qualche vantaggio da una soluzione diplomatica e pacifica della crisi nordcoreana? Considerando gli interessi dei diversi attori coinvolti (Cina, Russia, Giappone…).
Credo che una soluzione, anche temporanea, pacifica e diplomatica ottenuta attraverso il dialogo gioverebbe a tutti gli attori in campo. Sicuramente alla Cina in primo luogo. Pechino è preoccupata soprattutto della stabilità della regione, la quale sarebbe messa in serissima difficoltà tanto da un proseguire delle provocazioni nordcoreane, quanto da azzardate azioni militari americane. Per Pechino la sopravvivenza del regime nordcoreano – o meglio evitare un suo crollo improvviso – è una questione fondamentale dal punto di vista della sicurezza nazionale; per questo, nonostante la crescente irritazione verso le azioni di Pyongyang, non è disposta ad abbandonare il regime. Anche per la Russia questa sarebbe la soluzione ideale, anche se i suoi interessi in gioco sono sicuramente più limitati. La Corea del Sud ne beneficerebbe in maniera decisa, limitando la tensione sulla penisola – che può avere conseguenze anche dal punto di vista economico-finanziario, di immagine e turistico (basti pensare alle prossime Olimpiadi di Pyeongchang in programma per febbraio 2018) – e creando le condizioni per riavviare una reale strategia di dialogo e cooperazione inter-coreana. L’unica questione controversa potrebbe esserci per USA e Giappone, nella più ampia strategia di rinforzamento del proprio ruolo, anche militare, nella regione. In realtà, dopo l’abbandono del Pivot to Asia da parte di Trump, in favore di una strategia decisamente più isolazionista, Washington sembra meno interessata di quanto lo fosse con Obama a rinforzare la propria presenza su quello scacchiere. La politica verso l’Asia di Trump appare alquanto fumosa – basti pensare alle nomine molto tardive degli ambasciatori a Pechino, Tokyo e Seoul (ancora non confermata) e la mancata nomina del nuovo Sottosegretario di Stato all’Asia Pacifico – e a tratti improvvisata, fatta di annunci di stampo isolazionista (ritiro dal TPP e ridiscussione del trattato di libero scambio proprio con la Corea del Sud) e successivi strappi in avanti. Il dossier nordcoreano è stato comunque utilizzato per rafforzare la presenza militare americana nella regione, basti pensare all’installazione del THAAD in Corea del Sud. Per quanto riguarda il Giappone la questione è diversa. Il Primo Ministro Abe ha da sempre sostenuto la necessità di rafforzare le forze di auto-difesa e anche di modificare l’articolo 9 della Costituzione, incontrando però spesso la contrapposizione dell’opinione pubblica, tradizionalmente favorevole alla Costituzione pacifista. La continua minaccia nordcoreana, soprattutto quando coinvolge il Giappone in maniera più diretta come nel caso del missile che ne ha sorvolato il territorio poche settimane fa, potrebbe fare il gioco di Abe, spostando l’ago della bilancia dell’opinione pubblica verso posizioni più favorevoli ad un maggior riarmo del paese.