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«Quando l’America cresce, tutto il mondo cresce»

Una rapida panoramica sull'andamento dell'economia statunitense dopo l'atteso discorso del presidente Donald Trump a Davos, in occasione del World Economic Forum
di Redazione

«Quando l’America cresce, tutto il mondo cresce». Donald Trump lo ha ricordato nel suo atteso intervento a Davos, in occasione del World Economic Forum. Il presidente degli Stati Uniti ha molte ragioni dalla sua perché non si può negare che molte tendenze provenienti da oltreoceano si rivelino presto anticipatrici di trend analoghi nel resto del mondo, Europa in testa. E almeno in parte è anche il motivo per cui gli interventi prima del suo, nei giorni scorsi, dal primo ministro indiano Modi alla cancelliera tedesca Merkel e al presidente francese Macron, erano apparsi “contro” le attuali politche americane che sembrano riproporre un nuovo modello protezionista. Trump si è mostrato perciò alla platea di Davos meno ostile di quanto ci si potesse aspettare, specificando che «America First non vuol dire America alone», ma anche che Washington sarà molto più dura che in passato al cospetto di tentativi di furti della proprietà intellettuale o elevati squilibri della bilancia commerciale con altri paesi, chiari riferimenti alla Cina. Il commercio è «libero» – è il suo ragionamento – se è «equo» e «reciproco». L’inquilino della Casa Bianca, insomma, è venuto a parlare davanti al gotha della finanza sciorinando i risultati economici positivi che si stanno registrando negli USA. Ora il punto è capire se il merito è tutto dell’attuale amministrazione. Difficile a dirsi, ad ogni modo una rapida analisi sull’andamento dell’economia statunitense può essere l’occasione per trarre un bilancio, seppur non esaustivo, del primo anno di Trump alla guida del paese.

«Questo è il momento migliore per investire in America, abbiamo tagliato le tasse, abbiamo tagliato la burocrazia, è il momento migliore per investire e assumere negli USA», ha sostenuto ancora Trump. L’economia degli Stati Uniti gode di buona salute, la crescita del Pil nel quarto trimestre 2017 è stata del 2,6%, al di sotto delle attese degli analisti che avevano previsto un +3%, comunque si mantiene sui valori stabili che ormai, più o meno, si registrano dal 2009-2010. La ripresa, insomma, è cominciata durante l’amministrazione Obama (che a sua volta aveva ereditato una situazione delicata, con un tasso disoccupazione alto per gli standard americani, a causa dello scoppio della crisi economico-finanziaria del 2007-2008). La ripresa in questi anni, tuttavia, non è avvenuta in maniera omogenea su tutto il territorio americano, anzi ha lasciato in alcune aree (si pensi alla regione della Rust Belt o alla prolungata crisi di Detroit) strascichi pesanti, nonostante la risalita vertiginosa del mercato del lavoro. Ad oggi i livelli occupazionali sono più che positivi, la disoccupazione è ai minimi, di poco superiore al 4% fisiologico. Un’ottima notizia soprattutto per la Fed, essendo questo uno dei suoi principali obiettivi. Ma si tratta, anche in questo caso, di un trend in atto da alcuni anni, cominciato quindi durante la precedente amministrazione. Piuttosto si evidenzia ancora un ritardo relativo al mercato del lavoro: il tasso di partecipazione alla forza lavoro (ovvero il rapporto tra forza lavoro – occupati e disoccupati in cerca di impiego – e popolazione) ha evidenziato una discesa già dal 2010, fino a raggiungere i minimi da oltre 40 anni al 62,4%. Oggi le cose vanno meglio, ma di qualche decimale, attestandosi al 62,7% al pari del dato di novembre.

Al momento ciò che potrebbe cambiare l’andamento dell’economia statunitense è la riforma fiscale voluta da Trump e approvata allo scadere dello scorso anno dal Congresso. È ancora troppo presto, ovviamente, per stabilire quali saranno gli effetti, ma alcune prime conseguenze già ci sono state. Walmart, colosso mondiale della grande distribuzione, ad esempio, alzerà a partire da febbraio il salario minimo orario da 10 a 11 dollari e concederà premi e benefit ai lavoratori sul territorio americano. Fca, invece, investirà un miliardo di dollari nell’impianto di Warren, in Michigan, per produrre la prossima generazione del Ram Heavy Duty e distribuirà un bonus di duemila dollari a circa 60 mila dipendenti. Le iniziative delle due aziende sono legate – come hanno riferito – proprio alla riforma fiscale, che prevede per le imprese un taglio dell’aliquota dal 35% al 21%. Anche Apple sfrutterà parte della riforma di Trump, riportando “in casa” una somma importante dei miliardi di dollari che detiene all’estero per pagare meno tasse, una mossa che potrebbe incentivare l’azienda a investire negli Stati Uniti. La riforma fiscale, in verità, ha ricevuto diverse critiche, soprattutto tra le file dell’opposizione democratica, secondo cui le misure avvantaggeranno i più abbienti anziché il ceto medio. Trump sostiene al contrario che tutti avranno dei benefici dai tagli fiscali, che interessano tanto le imprese quanto gli individui (anche se temporaneamente) e che la riforma favorirà i consumi e consoliderà la ripresa. Di certo, al di là delle considerazioni che in futuro potranno essere più accurate, si tratta di un provvedimento che si muove assolutamente nel solco di “America First”, specialmente nella parte relativa alle aziende. Donald Trump, già in campagna elettorale, aveva promesso milioni di posti di lavoro negli anni a seguire e una rinegoziazione degli accordi commerciali internazionali che penalizzano le imprese e i lavoratori statunitensi. La riforma fiscale, in definitiva, è un primo passo in questa direzione. Con quali risultati andrà osservato nel lungo periodo.

 

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