Lavoro: l’importanza dell’istruzione per imprenditori e dipendenti
Quale futuro per le attività lavorative? Che fine faranno i lavoratori che hanno più da perdere a causa dell’automazione dei processi produttivi e dell’IA? Sono domande a cui il nostro giornale sta provando a rispondere da tempo. «Va benissimo sostenere processi come Industria 4.0, va benissimo implementare nuove regole di funzionamento del mercato del lavoro, ma se tutto ciò non viene accompagnato da adeguati strumenti di welfare, di sostegno ai redditi di chi nella transizione ci perde e di servizi – per le politiche attive e per la conciliazione – che aiutino i lavoratori e le lavoratrici a riadattarsi, allora è un problema», è la versione di Emmanuele Pavolini, professore in Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università degli Studi di Macerata, intervistato da T-Mag.
Spesso si dice che la formazione e lo sviluppo di nuove (e ormai fondamentali) competenze siano l’antidoto a qualsiasi rischio di disoccupazione di massa – ammesso che esista in questi termini – provocato dalle innovazioni tecnologiche. L’Istat ha recentemente pubblicato il Rapporto sulla conoscenza, uno strumento utile per comprendere, tra le altre cose, il livello dell’istruzione nel tessuto delle micro e piccole imprese con dipendenti. «Nel 2015 – riferisce l’Istat –, le imprese con dipendenti da 2 a 49 addetti attive nella manifattura e nei servizi di mercato sono circa 770 mila, con 4,6 milioni di occupati. Si tratta di una componente importante del tessuto produttivo nazionale. Il livello medio di istruzione degli imprenditori è relativamente modesto (11,4 anni di scolarità pro capite nel 2015, meno del diploma secondario superiore) benché cresciuto nel tempo (0,4 anni in più rispetto al 2011). I loro dipendenti sono, nel complesso, relativamente meno istruiti (10,8 anni di scolarità pro capite)». Queste caratteristiche, però, variano molto al variare dell’attività d’impresa – dagli oltre 16 anni pro capite per gli addetti del comparto Ricerca e sviluppo ai 9 anni scarsi nel caso dell’industria delle confezioni e della pelletteria –, ma le differenze nei livelli di istruzione sono molto ampie anche all’interno dello stesso comparto, «il che suggerisce la coesistenza di modelli organizzativi diversi e una eterogeneità rilevante nella collocazione delle singole imprese nella catena del valore».
«L’analisi condotta sull’intero universo di queste imprese – spiega ancora l’Istat – mostra che dove gli imprenditori sono più istruiti, a parità di settore, dimensioni e localizzazione geografica, anche i dipendenti tendono ad avere un livello di istruzione più elevato: in media, ogni anno di scolarizzazione in più dell’imprenditore corrisponde a 1,3 mesi di istruzione in più per ciascun dipendente. L’istruzione di imprenditori e dipendenti è associata positivamente alla performance delle imprese: la dinamica del valore aggiunto è più favorevole, i salari sono migliori e, soprattutto, i tassi di sopravvivenza sono più elevati. In quest’ultimo caso, nel periodo 2011-2015, caratterizzato da una mortalità molto elevata delle imprese esistenti, per ogni anno d’istruzione in più degli imprenditori si è osservato in media un miglioramento del 5% nel tasso di sopravvivenza delle imprese e un ulteriore miglioramento di circa il 3% per ogni anno d’istruzione della media dei dipendenti. Infine, l’istruzione degli addetti (in questo caso, soprattutto quella dei dipendenti) è risultata associata sia alla scelta di adottare le tecnologie dell’informazione sia al comportamento innovativo». In pratica, ogni anno di istruzione in più degli addetti (nel 2015) aumenta di quasi il 30% la probabilità di adozione di applicativi di gestione generale (Erp), di circa il 20% quella di software di gestione dei rapporti con i clienti (Crm; più elevata per l’uso operativo) e di poco meno il 25% quella di avere realizzato innovazioni combinate materiali (di prodotto o processo) e immateriali (organizzative o di marketing). Inoltre, si riflette in una differenza pari a circa il 6% sulla percentuale di addetti che utilizzano computer nell’attività lavorativa.
Va da sé che maggiori livelli di istruzione (e l’acquisizione di competenze legate alle innovazioni, attraverso un’adeguata formazione) siano utili anche in termini di produttività. In quasi tutte le economie europee per le quali si ha informazione aggiornata – osserva a tale proposito l’Istituto nazionale di statistica –, tra il 2011 e il 2016 si registra un aumento sensibile della diffusione delle attività di apprendimento non formali. In Italia, nel 2016 ha partecipato il 40,6% della popolazione tra i 25 e 64 anni, rispetto al 34,3% del 2011. Ma «in ambito europeo, la diffusione è prossima o superiore al 50% nei paesi nordici, in Germania, Austria, Francia (nel 2011) e Ungheria mentre scende sotto il 30% in diversi paesi dell’est europeo e in Grecia». L’Istat, poi, ricorda che «il ritardo complessivo del nostro Paese e il ruolo centrale di età e istruzione nella diffusione delle tecnologie digitali si confermano anche per l’uso di Internet: in Italia, gli utenti regolari sono aumentati dal 37% nel 2008 al 69% nel 2016 (contro l’81% nell’Ue), quota che sale al 73,7% tra le persone laureate di 65-74 anni». Ad ogni modo l’impiego delle tecnologie dell’informazione per le attività di e-business in Italia è in rapida crescita e in linea con la media europea. In particolare, nel 2017 circa il 37% delle imprese italiane con almeno 10 addetti ha utilizzato applicativi gestionali (Erp) per condividere e integrare l’informazione all’interno dell’azienda e rendere i processi più efficienti (+15 punti rispetto al 2010). Ma, come già sottolineato, l’uso delle tecnologie digitali nelle piccole imprese appare fortemente influenzato dai livelli d’istruzione degli addetti. Parlare di lavoro – al netto di possibili miglioramenti dei livelli occupazionali o eventuali aumenti del tasso di disoccupazione – vuol dire ormai parlare anche di queste cose.
(fonte: Istat)