Stephen Hawking. Quando la scienza diventa pop
Quando muore una personalità di spessore – che sia un attore o un cantante, un politico o una guida religiosa – è il ricordo di questo o quell’evento, una frase davvero pronunciata o semplicemente attribuita, il modo più diffuso per descriverla. Stephen Hawking, morto a 76 anni il 14 marzo mattina nella sua casa di Cambridge, nel Regno Unito, è sicuramente una di quelle personalità, descritte in quel modo. Ma un motivo c’è: è stato capace di rendere pop una materia tanto complessa come l’astrofisica, di avvicinare la scienza alle persone – in una dimensione quantomeno simbolica – tanti anni dopo l’iconografia di Albert Einstein. Per dirla con Amedeo Balbi, che di recente ha ritratto lo scienziato per il Tascabile, «una parte del successo popolare del personaggio Hawking è legata proprio a questa possibilità di semplificazione narrativa. Prima c’è un giovane studente, ribelle e irrisolto, intelligente ma non eccezionale: poi c’è la malattia, e con essa la trasformazione in un genio chiuso nel suo mondo mentale, separato dal resto dell’umanità ma allo stesso tempo in grado di essere una specie di ponte tra il mondo della materia inerte – dove si soffre e ci si ammala – e quello platonico e perfetto della matematica».
[By Pete Souza – White House Photostream, Public Domain, Link]
Nel 2014 un film sulla sua vita, La teoria del tutto. Apparizioni o citazioni in episodi dei Simpson, The Big Bang Theory, Star Trek. Persino una parte in una pubblicità della Jaguar. Hawking, insomma, è stato indubbiamente una delle menti più brillanti della nostra epoca, ma non solo questo. Tutto è cominciato alla fine degli anni ’80, con la pubblicazione del libro Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, che ebbe un incredibile successo. Quanto sia stato capito da chi lo ha letto è cosa oggi di poco conto, per quanto sia questione dirimente del suo lascito scientifico. È l’epoca dei meme, dell’omaggio condiviso, della parola detta o forse no che vale più degli studi, delle scoperte, dei contributi al sapere umano. Ricorda ancora Balbi: «Non si è mai tirato indietro nel dare in pasto ai media titoli appetitosi, anche a prezzo di apparire irrimediabilmente ingenuo su tutto ciò che non abbia una diretta attinenza con la fisica teorica». Tra le tante cose che possiamo rammentare – tema caro a T-Mag, almeno in un’ottica sociale ed economica – la sua avversione all’idea di un mondo dominato dai robot. Le intelligenze artificiali, secondo Hawking, potrebbero rappresentare l’inizio della fine, ovvero un beneficio che non riuscirà a compensare la possibilità di danno perché quando le macchine saranno in grado di autogovernarsi non potremo predevere obiettivi, fini, comportamenti. E non è stato il solo a mettere in guardia l’umanità dall’avvento di macchine intelligenti. Anche Elon Musk e Bill Gates hanno sostenuto qualcosa di simile, certo non dei nemici dell’innovazione e della tecnologia.
Resta però un fatto, al di là degli scenari nefasti che non possiamo oggi quantificare in alcun modo, se non immaginando un futuro del tutto ipotetico su cui però i decisori (politica, classe dirigente…) dovranno mostrarsi lungimiranti e capaci di governare: se oggi sappiamo – chi più, chi meno – imbastire un discorso sui buchi neri, è perché lo dobbiamo in larghissima parte a lui. Alla sua abilità di rendere un concetto scientifico non alla portata di tutti un motivo di conversazione tra profani della materia. Hawking ha voluto governare il suo potenziale e personale buco nero – una malattia che lo ha costretto a vivere su una sedia a rotelle – e ci è riuscito alla grande, un esempio per molti. Il mondo che ci attende dopo Hawking, invece, sarà una scoperta per tutti. In fondo era “solo” un fisico.