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Perché Donald Trump vuole rientrare (o forse no) nel Tpp

Ne è uscito perché convinto che avrebbe danneggiato gli Stati Uniti. Adesso, però, potrebbe decidere di fare un passo indietro, venendo meno a una delle sue principali promesse fatte in campagna elettorale
di Mirko Spadoni

All’annuncio – venerdì Trump ha dichiarato (inaspettatamente) che gli Stati Uniti sarebbero rientrati a far parte del Tpp, il Trans Pacific Partnership, l’accordo di libero scambio con i Paesi che si affacciano sul Pacifico – è seguita una precisazione. Poche ore dopo Trump ha specificato che il ritorno degli Usa nel Tpp sarà possibile solo ad una condizione: l’accordo deve rivelarsi «decisamente migliore rispetto a quello offerto al presidente Obama», ha spiegato su Twitter. «Abbiamo già accordi bilaterali con sei delle 11 nazioni che aderiscono al Tpp e stiamo lavorando per giungere a un accordo con il principale di quei Paesi, il Giappone, che ci hanno colpito duramente per anni dal punto di vista commerciale».

Trump ha ereditato il Tpp dalla precedente amministrazione. Realizzandolo, Obama intendeva unificare commercialmente un’area economicamente (molto) rilevante. Qualche numero: dodici le economie coinvolte – tutti i Paesi che si affacciano sul Pacifico a cui è riconducibile il 40% del Prodotto interno lordo globale, fatta eccezione per la Cina –, 800 milioni le persone interessate. L’esclusione di Pechino dall’accordo era coerente con uno degli obiettivi principali dell’amministrazione Obama: isolare la Cina economicamente e politicamente. Per riuscirci, però, era necessario stringere forti legami con i Paesi del Pacifico.
Alla politica obamiana di contenimento della Repubblica popolare, materializzatasi con il Tpp, il governo cinese ha reagito annunciando nel 2013 le cosiddette Nuove Vie della Seta – in inglese: One-Belt-One-Road –, con lo scopo d’intensificare i legami economici e politici con i Paesi dell’Asia centrale e meridionale e con l’Europa. L’uscita dal Tpp è stata una delle prime decisioni prese da Trump. Anche dopo il passo indietro degli States, i restanti undici Paesi coinvolti nel piano iniziale non sono rimasti a guardare: grazie soprattutto all’impegno del Giappone, ovvero il Paese che avrebbe ottenuto i maggiori benefici dal contenimento della Cina, hanno firmato un nuovo trattato – il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership, sottoscritto l’8 marzo del 2018 a Santiago del Cile –, riprendendo alcune parti del Tpp.

Il Tpp prevedeva l’abolizione (o la parziale riduzione) di molte tariffe doganali per favorire gli scambi commerciali nell’area: complessivamente sarebbero state interessate oltre 18 mila tariffe. Una volta ratificato dai Parlamenti dei Paesi coinvolti, l’accordo prevedeva anche l’introduzione di nuove regole sugli investimenti, sul lavoro e sull’ambiente. A Trump, però, il Tpp non è mai piaciuto – al pari di molti altri accordi di libero scambio, come il NAFTA, che lega Stati Uniti, Canada e Messico –, sostenendo che rappresenta un rischio per l’occupazione negli Stati Uniti: agli accordi di libero scambio, Trump ha sempre ammesso di preferire gli accordi bilaterali. Tuttavia le recenti tensioni commerciali con la Cina potrebbero indurlo ad un passo indietro sul Tpp.

 

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