Schultz lascia Starbucks: breve storia di un modello di business
Ora che Howard Schultz ha deciso di lasciare Starbucks in via definitiva, da presidente esecutivo, il 26 giugno dopo che nel 2017 aveva abbandonato la carica di amministratore delegato (anche se supervisionerà l’ingresso del gruppo nel mercato italiano, con l’apertura di un punto vendita a Milano, il 6 settembre), negli Stati Uniti si rincorrono le voci di un suo possibile impegno in politica, sponda democratica, magari candidato presidente nel 2020.
Non è la prima volta che si vocifera di un suo ipotetico coinvolgimento. Notoriamente ostile alle politiche dell’amministrazione Trump, al New York Times ha detto: «Da tempo ormai sono molto preoccupato per il mio Paese, per le crescenti divisioni a casa e per il nostro posizionamento nel mondo. Voglio capire se c’è un ruolo che posso giocare, ma non sono ancora esattamente sicuro di cosa ciò significhi». Non una conferma, non una smentita. Un messaggio criptico per un uomo, in verità, piuttosto pratico come conferma la sua storia di imprenditore.
Leggenda vuole Schultz fare ritorno a casa da un viaggio in Italia nel 1983 con la valigia piena di idee. Starbucks esisteva già, era un’azienda di Seattle specializzata nella torrefazione e nella vendita di caffè, in grani o macinato. Lui ci lavorava da circa un anno, come direttore marketing. In Italia aveva scoperto la cultura del bar e ai suoi capi di Seattle propose di promuovere qualcosa di simile. Il resto è storia: sotto la sua guida, Starbucks è passata da 11 punti vendita a 28 mila in oltre 70 paesi, dagli Stati Uniti all’Asia, passando per l’Europa. A un certo punto si era soliti dire che la concorrenza a Starbucks sarebbe giunta da Starbucks, dato che in molte città americane potevano sorgere punti vendita a poca distanza l’uno dall’altro. E così in effetti è stato fino alla crisi economica: le perdite registrate tra il 2008 e il 2009 hanno costretto il gruppo a “ridimensionare” il numero degli esercizi e ad abbassare i prezzi dei prodotti, con la conseguente riduzione dei posti di lavoro.
Come ogni storia di successo, tipicamente statunitense, arriva un momento in cui questioni sociali (che in America spesso significa razziali) si mescolano ad affari e business. Quando Donald Trump ha cominiciato a mettere in pratica politiche restrittive in termini di accoglienza, la posizione ufficiale espressa al gruppo è stata di segno opposto: «Ci sono più di 65 milioni di cittadini del mondo riconosciuti come rifugiati dalle Nazioni unite e noi stiamo definendo piani per assumerne 10 mila nei prossimi cinque anni nei 75 paesi del mondo dove è presente Starbucks e inizieremo qui negli Stati Uniti, concentrandoci inizialmente su questi individui che hanno servito le truppe Usa come interpreti e personale di supporto nei diversi paesi dove il nostro esercito ha chiesto sostegno», spiegò Schultz in una lettera ai dipendenti. Non che siano mancati gli incidenti di percorso. Ad aprile, in un punto vendita di Philadelphia, due ragazzi afroamericani sono stati arrestati perché stavano ritardando l’ordine in attesa di un terzo amico, circostanza che per qualche motivo aveva indispettito i dipendenti. Era stato loro negato persino di accedere al bagno, destinato ai clienti paganti. Chiamata la polizia e seguito l’arresto via social, una volta innescata la spirale d’indignazione (in molti hanno fatto notare un atteggiamento discriminatorio), i piani alti di Starbucks non hanno potuto fare altro che chiedere scusa e organizzare immediatamente una giornata di formazione anti-razzismo per i dipendenti.
Lo scorso anno Schultz si era dimesso da amministratore delegato, ma da presidente esecutivo si è poi concentrato nell’apertura di negozi di fascia alta, con prodotti più ricercati. In Italia Starbucks è stato a lungo assente, anche per un diverso modello culturale sul consumo di caffè di cui Schultz è stato sempre pienamente consapevole avendolo studiato molto bene. Così è stato fino a quest’anno: a Milano aprirà a breve un locale, di quelli di alta fascia.