Iran, i primi effetti delle sanzioni Usa
Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, può dirsi soddisfatto, almeno per una cosa. In giorni abbastanza movimentati – il suo ex legale, Michael Cohen, ha ammesso martedì di aver violato la legge «in collaborazione e su indicazione» di Trump «allo scopo di influenzare l’esito delle elezioni», commettendo un reato federale –, c’è una notizia che può farlo sorridere. La decisione di abbandonare il JCPOA, l’accordo sul nucleare sottoscritto a Vienna nel 2015, annunciata lo scorso 8 maggio e la conseguente reintroduzione delle sanzioni, entrate in vigore dal 6 agosto 2018, nel tentativo di isolare (nuovamente) la Repubblica islamica – le sanzioni colpiscono anche i soggetti non statunitensi che continueranno a intrattenere rapporti commerciali ed economici con l’Iran –, hanno avuto diversi effetti, prima ancora della loro effettiva entrata in vigore.
Secondo le stime preliminari di Platts, l’Iran ha esportato 1,68 milioni di barili al giorno di greggio e condensati, pari a circa un terzo in meno rispetto ai 2,32 milioni di barili al giorno di luglio. Particolarmente evidente la riduzione dell’import indiano, scese a 200mila barili al giorno, un calo notevole rispetto ai 700mila del mese precedente. Non tutti hanno rinunciato al petrolio iraniano, però: le importazioni cinesi sono rimaste costanti mentre quello europeo è tornato sui livelli abituali, salendo a 631.814 bg dopo il calo a 465.450 registrato a luglio.
Quelle reintrodotte da Trump (una seconda tranche è attesa per novembre) sono le cosiddette “sanzioni secondarie”. Perché questa precisazione? Con l’entrata in vigore del JCPOA (16 gennaio 2016) gli Stati Uniti avevano sospeso le “sanzioni secondarie” relative al programma nucleare iraniano, lasciando in vita quelle “primarie” e quelle “secondarie” non relative al nucleare. Nonostante il JCPOA, dunque, ai soggetti statunitensi veniva comunque impedito di intrattenere rapporti con l’Iran, salvo rare eccezioni autorizzate da licenze speciali.
La decisione di Trump rischia di avere grosse ripercussioni sui soggetti non statunitensi, dunque (oltre, naturalmente, a mettere a rischio l’esistenza dell’accordo sul nucleare stesso). Una prova? La scelta del gruppo francese Total, annunciata lunedì dal ministro del Petrolio iraniano Bijan Zanganeh, di abbandonare un progetto per lo sviluppo di un grande giacimento di gas di South Pars, nel Golfo persico, l’unico progetto in campo energetico di un’azienda europea, dopo l’accordo sul nucleare. Il contratto, del valore di circa quattro miliardi di dollari, era stato assegnato nel luglio del 2017 ad un consorzio di cui facevano parte appunto la Total, con il 50,1%, la cinese Cnpc con il 30% e l’iraniana Petropars con il 19,9%.
Con la sospensione delle “sanzioni secondarie”, prevista dal JCPOA, l’Italia era riuscita a ritagliarsi un suo spazio in Iran: nel 2017 il nostro Paese è stato il primo partner commerciale della Repubblica islamica tra gli Stati membri dell’Unione europea, seguito da Francia e Germania, con un interscambio tra Italia e Iran in crescita del 97% rispetto al 2016 arrivando a quota 5 miliardi di euro, mentre Francia e Germania seguivano rispettivamente a 3,8 e 3,3 miliardi.
Trump non intende allentare la pressione sulla Repubblica islamica, cercando di coinvolgere gli alleati europei, al momento ancora incerti se seguire la nuova amministrazione americana. Il consigliere della sicurezza nazionale, John Bolton, ha ribadito lunedì che gli Usa vogliono impedire all’Iran di dotarsi di un’arsenale nucleare. Un concetto espresso più volte e ribadito in occasione di un incontro con il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, a Gerusalemme. Ovviamente soddisfatto Israele: Tel Aviv considera un obiettivo vitale – lo stesso vale per l’Arabia Saudita, l’altro grande alleato degli Usa in Medio Oriente – limitare la crescente influenza di Teheran nella regione, con la Repubblica islamica che gode di un peso enorme in Siria, Yemen, Libano e Iraq.