I Centri per l’impiego e i canali informali di ricerca del lavoro
Il Reddito di cittadinanza (RdC), una delle due misure cardine del governo Conte (l’altra è Quota 100 che riforma le modalità di accesso alla pensione), «presenta alcune caratteristiche comuni con il Reddito di inclusione (misura di contrasto alla povertà approvata dal governo Gentiloni, ndr), in particolare l’intento di associare le misure di sostegno del reddito delle famiglie in condizioni economiche di bisogno con l’individuazione di un percorso di inclusione lavorativa, che richiede un potenziamento del sistema di politiche attive del lavoro». È l’Istat ad averlo osservato in audizione al Senato, in commissione Lavoro. E a proposito di politiche attive del lavoro – ovvero tutte quelle iniziative volte a promuovere l’occupazione e l’inserimento lavorativo –, un ruolo fondamentale in questo senso sarà quello svolto dai Centri per l’impiego (Cpi). Ruolo che però l’Istat, già in precedenza, aveva definito «limitato». Vediamo perché.
Innanzitutto, cosa sono esattamente i Centri per l’impiego? L’Anpal (Agenzia nazionale Politiche attive del Lavoro) li descrive così: «Sono strutture pubbliche coordinate dalle Regioni che favoriscono sul territorio l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e attuano iniziative e interventi di politiche attive del lavoro. Le attività dei Centri per l’impiego sono rivolte ai cittadini disoccupati, ai lavoratori beneficiari di strumenti di sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro e a rischio disoccupazione, nonché ai lavoratori occupati in cerca di nuova occupazione».
Di recente alcune inchieste giornalistiche hanno messo in risalto i ritardi di tali strutture. Tutte questioni che andranno affrontate per rendere efficienti i servizi. Anche perché – rileva l’Istat – i dati Eurostat sui “servizi per il mercato del lavoro” «documentano il significativo divario italiano rispetto agli altri principali paesi europei: nel 2015 la spesa risultava in Italia pari allo 0,04% del Pil, rispetto allo 0,36 della Germania, allo 0,25 della Francia e allo 0,14 della Spagna. In termini di spesa per l’insieme di disoccupati e forze lavoro potenziali, si va dai circa 3.700 euro pro-capite spesi dalla Germania, ai 1.300 della Francia, ai 250 della Spagna, ai 100 dell’Italia». Alle modeste risorse pubbliche investite, prosegue l’Istat nella sua analisi, corrisponde anche un minore ricorso da parte dei cittadini ai canali istituzionali di ricerca di lavoro. «I dati della Rilevazione sulle forze di lavoro, comparabili a livello europeo, mostrano che negli altri paesi i centri pubblici per l’impiego svolgono un ruolo molto più rilevante sul mercato del lavoro».
Questi i numeri: «Nel 2017 ha contattato i centri il 45,2% dei disoccupati nell’Ue28, il 74,5% in Germania, il 58,1% in Francia, il 25,2% in Spagna, il 25,4% in Italia. In Italia è basso anche il corrispondente dato relativo ai centri privati: 14,7% contro, ad esempio, il 28,6% della Spagna». Per queste ragioni, viene osservato, «il legislatore ha previsto che una parte consistente del Fondo per il reddito di cittadinanza, per un importo fino a 1 miliardo di euro per gli anni 2019-2021, sia destinata al loro potenziamento».
Come avviene la ricerca di lavoro, dunque? Anche qui è utile recuperare i dati Istat (anno di riferimento 2017). In Italia viene affidata soprattutto ai canali di tipo informale. L’87,3% delle persone in cerca di lavoro si è rivolto a parenti, amici e conoscenti, un valore in aumento rispetto a quello registrato prima della crisi (era all’81,2% nel 2007). La quota è superiore nel Mezzogiorno (88,7%) e fra gli uomini (88,9% rispetto all’85,6% delle donne), aumenta al crescere dell’età (90,1% per gli ultracinquantenni) ed è maggiore per gli stranieri (91% rispetto all’86,8% degli italiani). Inoltre diminuisce al crescere del titolo di studio (73,8% per chi è laureato).
Le altre azioni di ricerca frequentemente adottate restano l’invio di un curriculum (70,3%) e la consultazione di Internet (59,8%). Riguardo i Centri pubblici per l’impiego, nel 2017, appunto, vi si è rivolto in media circa un quarto delle persone in cerca di lavoro. E sebbene il ricorso ai Cpi sia cresciuto negli anni della crisi (si attestava al 31,6% nel 2012), sempre meno persone si sono rivolte alla strutture nei periodi successivi. I contatti sono più frequenti nelle regioni del Nord (30,3% delle persone in cerca rispetto al 19,2% del Mezzogiorno), tra gli uomini (25,4% rispetto al 22,7% delle donne) e nelle fasce di età superiore ai 50 anni (26,2% rispetto al 23,3% dei giovani fra i 15 e i 34 anni). E riguardano principalmente le persone con titolo di studio intermedio: la quota è pari al 25% tra i diplomati rispetto al 21,7% delle persone con almeno la laurea.
A questi numeri vanno associati altri, di certo non trascurabili: quasi due imprese su tre – stavolta la rilevazione è di Unioncamere, che nell’estate del 2018 intervenne in audizione al Senato nell’ambito dell’indagine conoscitiva sul funzionamento dei servizi pubblici per l’impiego – ricercano il personale con canali informali, appena il 2% utilizza i Centri per l’impiego. «Anche sul versante privato solo il 5% delle imprese fanno ricorso alle agenzie del lavoro, associazioni imprenditoriali e società di somministrazione».