Perché il cambiamento climatico è un problema di tutti
Oggi migliaia di studenti scendono in piazza, in 150 paesi, per sostenere la battaglia per il clima e l’ambiente dell’attivista 16enne svedese Greta Thunberg. Alcuni dati e un’idea per un nuovo modello di sviluppo
di Fabio Germani
In occasione del Fridays For Future (oggi, venerdì 15 marzo, si sciopera in migliaia di scuole di centinaia di paesi del mondo per l’ambiente, iniziativa nata a seguito delle azioni intraprese dalla giovane attivista svedese, Greta Thunberg), l’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) ha pubblicato su Instagram le dieci buone ragioni per cui il cambiamento climatico dovrebbe essere al centro delle nostre attenzioni. Cose di cui spesso abbiamo scritto anche su queste pagine, ma che vale la pena ripassare. Ad esempio: in circa 200 anni la temperatura media globale è aumentata di 1,2 gradi; 16 dei 17 anni più caldi di sempre sulla Terra si sono registrati dal 2001 ad oggi; il cambiamento climatico è una delle cause dell’80% dei disastri naturali e dal 1900 ad oggi ha fatto crescere il livello dei mari di 19 cm; entro il 2050 si scongeleranno i ghiacciai artici durante l’estate e per quella data 140 milioni potrebbero essere costrette a migrare; il 97% degli scienziati ritiene che il cambiamento climatico sia influenzato dall’uomo e mantenendo questo ritmo mancherebbero appena 20 anni al punto di non ritorno.
Tali stravolgimenti potrebbero poi interessare anche l’Italia, dove entro il 2100 potrebbe una parte del paese grande quanto la Liguria potrebbe essere sommersa. Si tenga conto che otto isole nell’Oceano Pacifico sono state già sommerse completamente.
In uno degli ultimi rapporti dell’Onu sul clima presentato dall’IPCC – la commissione dell’Organizzazione dedicata ai temi del riscaldamento globale – viene indicato un aumento di 1,5 gradi quale limite, valore considerato dagli esperti la soglia massima di sicurezza per avere effetti quantomeno gestibili. Gli scienziati dell’IPCC hanno rivisto la soglia dei due gradi già sottoscritta nell’accordo sul clima di Parigi del 2015, da cui proprio gli Stati Uniti – tra i principali promotori all’epoca – si sono sfilati per volontà dell’attuale amministrazione Trump. I parametri stabiliti a Parigi, in estrema sintesi, affermano la necessità di contenere l’aumento della temperatura media globale entro i 2 gradi – meglio 1,5 – da qui a fine secolo, tentando di prevenire le catastrofi naturali. In più si raccomanda di produrre l’85% di energia elettrica da fonti rinnovabili entro il 2050.
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Un modello di sviluppo che permetterebbe alle imprese di provocare un minore impatto ambientale, è senza dubbio quello dell’economia circolare, vale a dire un sistema economico pensato per potersi rigenerare da solo. Secondo uno studio realizzato dalla Ellen McArthur Foundation e McKinsey, nel Vecchio continente da tale processo virtuoso può derivare un beneficio economico di circa 1.800 miliardi di euro entro il 2030, una crescita del Pil di ulteriori sette punti, più posti di lavoro con un aumento annuale del 3% della produttività delle risorse. A livello globale una recente ricerca di Accenture mette in luce come rendere sostenibili i modelli di business possa garantire, al 2030, un ritorno di 4.500 miliardi di dollari. Il concetto di rifiuto sparirebbe e materiali già utilizzati (leghe, polimeri, metalli….) assumerebbero un nuovo, e fondamentale, valore.
Rigenerare le componenti di manufatti e prodotti è un’attività che si sviluppa nel solco delle iniziative europee per una maggiore utilità, come il programma Horizon 2020 (un fondo di 65 miliardi di euro dal 2014 al 2020 destinato a imprese, enti di ricerca e università), volto a rafforzare ambiti e asset strategici quali la sicurezza alimentare, l’agricoltura e la bioeconomia (qui un approfondimento interessante dell’Ispi), l’energia, i trasporti e tutte quelle azioni di contrasto ai cambiamenti climatici e all’impatto ambientale, quali il riutilizzo di risorse e l’efficienza delle materie prime.