Usa 2020. L’emergenza sanitaria e le presidenziali
Dai timori per l’economia e il lavoro a quelli per la salute dei cittadini, quale sarà l’impatto dell’attuale crisi sul voto di novembre?
di Fabio Germani
Il coronavirus ha già stravolto la campagna elettorale negli Stati Uniti: ha modificato appuntamenti, annullato comizi ed eventi, rinviato primarie in alcuni Stati. Insomma, non si tratta più di capire in che modo la pandemia entrerà nei dibattiti o quali saranno le proposte dei candidati al riguardo. Per quando si andrà al voto il grosso di quello che servirà per arginare la diffusione del virus sarà stato ormai compiuto. Nello specifico, a novembre, gli americani avranno da fare una scelta molto al di là della preferenza per questo o quel candidato, ma quasi certamente condizionata da un giudizio bell’e pronto su come è stata gestita l’emergenza, sulle mosse (responsabili o meno) della controparte, sulla visione di futuro che ciascuna posizione riuscirà a far emergere. Negli Stati Uniti, stando al bollettino della Johns Hopkins University aggiornato al 23 marzo, i casi positivi di coronavirus hanno superato quota 35 mila, mentre sono 471 i morti. Quale sarà, allora, l’impatto della pandemia sulle elezioni presidenziali americane? La premessa, del tutto politica rispetto alla questione, è che la sfida del 3 novembre sarà tra il presidente uscente, Donald Trump, e l’ex vicepresidente, Joe Biden (improbabile che a Bernie Sanders riesca una rimonta, dovrebbe vincere quasi ovunque nei restanti Stati con un margine molto largo).
I dati che arrivano dai diversi sondaggi che stanno misurando le opinioni degli americani sull’emergenza restituiscono scenari che solo in apparenza possono apparire contraddittori. Se in un primo momento la Casa Bianca aveva negato – o almeno minimizzato – qualsiasi rischio elevato per gli Stati Uniti, Trump ha dovuto nei giorni scorsi fare un passo indietro e dichiarare l’emergenza nazionale, paventando l’ipotesi di tendenze recessive e mettendo sul piatto un piano da approvare al Congresso per complessivi mille miliardi di dollari (500 destinati direttamente ai cittadini e altrettanti alle piccole e medie imprese). Primi segnali che devono avere convinto una fetta importante di popolazione, considerando che il 55% – secondo un sondaggio AbcNews/Ipsos – approva le misure dell’amministrazione. Ma solo il 37% – stavolta la rilevazione è della Npr – dichiara di fidarsi delle informazioni fin qui date dal presidente, il quale evidentemente – in questa fase – sta pagando le continue giravolte osservate nei primi giorni di crisi sanitaria (anche se, secondo un sondaggio analogo del Pew Research Center, le risposte su come Trump e Pence stanno affrontando l’epidemia variano molto al variare dell’appartenenza politica, tra i repubblicani il grado di fiducia è piuttosto alto). Poi c’è la questione legata proprio alla salute delle persone, perché non si tratta esclusivamente di una mera questione economica. I posti disponibili in terapia intensiva negli ospedali statunitensi sono circa 45 mila, una cifra esigua rispetto a quanti – nel quadro peggiore – dovrebbero servire per garantire cure e interventi nei casi più gravi. Mentre il costo dei tamponi, nonostante le rassicurazioni sulle coperture assicurative, potrebbe scoraggiare molti americani a farsi avanti in presenza di sintomi, seppur lievi, nel timore di dover sborsare cifre importanti e non alla portata di tutti.
E la situazione fin qui descritta spiega molti aspetti di un’indagine più ampia condotta giorni fa dal Pew Research Center. Tanto per cominciare gli americani vedono il coronavirus più come una minaccia all’economia, quindi alle proprie tasche, che alla salute in generale. Non che quest’ultima non sia considerata a rischio, ma un 51% degli americani la ritiene una minaccia di tipo minore (solo il 27% appare, perciò, seriamente preoccupato). Tuttavia la quota di quanti considerano il Covid-19 una minaccia alla salute maggiore sale al 46% tra gli afroamericani e al 39% tra gli ispanici rispetto al 21% degli intervistati bianchi, ovvero tra le persone – per ragioni occupazionali e sociodemografiche – più esposte al rischio di subire le conseguenze peggiori in caso di contagio.
Il lavoro può essere giustappunto la chiave di tutto. La mancanza di lavoro a causa del coronavirus per un periodo prolungato può danneggiare soprattutto i lavoratori a basso reddito, quelli meno istruiti, i più giovani e i non bianchi. Poco più della metà degli occupati (54%) ritiene che non verrebbero pagati se il coronavirus dovesse causare la perdita del lavoro per almeno due settimane. Per i lavoratori neri e ispanici le preoccupazioni sono superiori. Molti di quelli ispanici (66%) temono di non essere pagati nell’arco di tempo considerato per l’assenza obbligata dal lavoro, incluso il 47% che afferma che sarebbe difficile far fronte alle spese durante questo periodo. La metà dei lavoratori neri afferma sostanzialmente la stessa cosa, mentre il 23% dichiara di non sapere cosa potrebbe accadere. I lavoratori più giovani intervistati – quelli compresi tra i 18 e i 29 anni – sono i gruppi di età che hanno le maggiori probabilità di dire che non saranno pagati se costretti a perdere due settimane di lavoro per il coronavirus.
Inutile girarci intorno: il coronavirus è entrato prepotentemente nella campagna elettorale e questi sono aspetti tutt’altro che trascurabili in chiave presidenziali, tanto per chi è in cerca di conferma – Donald Trump – quanto per chi ambisce – Joe Biden, con ogni probabilità – a prenderne il posto alla Casa Bianca.
Le puntate precedenti
Usa 2020. Biden vince ancora (ma la notizia è un’altra)
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[…] Secondo una ricerca del Pew Reserch Center, la quota di quanti considerano il Covid-19 una maggiore minaccia alla salute si attesta al 46% tra gli afroamericani e al 39% tra gli ispanici rispetto al 21% degli intervistati bianchi, ovvero tra le persone — per ragioni occupazionali e sociodemografiche — più esposte al rischio. Se si perde il lavoro — circostanza più probabile per chi svolge lavori precari, quindi, appunto, soprattutto persone afroamericane e ispaniche — quasi automaticamente si perde l’assicurazione sanitaria, con i risultati (negativi) che possiamo immaginare. Tale condizione riflette il retaggio di un contesto sociale che da sempre negli Stati Uniti interessa gli afroamericani in particolar modo. Superate le barriere della schiavitù, in America — soprattutto negli Stati del Sud — si è continuato a promuovere a lungo e in punto di diritto una cultura discriminante nei confronti dei neri. Le cosiddette Leggi Jim Crow sono state la punta dell’iceberg, ma tanti altri cavilli, ostacoli spesso subdoli, hanno continuato a rappresentare nel tempo un blocco incredibile allo sviluppo e alla completa emancipazione di un importante segmento demografico, seppur minoranza. In pochi, storicamente, migliorano le proprie condizioni di vita, non riuscendo ad accedere ai più elevati standard di istruzione che sono al contrario consentiti ai bianchi, con la conseguenza di essere impiegati — quando va bene — in lavori di solito sottopagati e incapaci di sostenere, ad esempio, le cure mediche, se necessarie. Una povertà diffusa che ancora oggi osserviamo e che la pandemia ha contribuito a scoperchiare. Di cambiamenti ne sono stati osservati nel corso degli anni. L’ultimo si è verificato pochi giorni fa: a Ferguson, città del Missouri, è stata eletta sindaco Ella Jones, la prima volta di una donna afroamericana. Una notizia importante perché al di là del ricordo di Michael Brown – il 18enne ucciso dalla polizia nel 2014 e teatro anche all’epoca di numerose proteste poi estese al resto degli Usa –, Ferguson è un tipico esempio di città con una scarsissima rappresentanza di afroamericani nelle istituzioni, malgrado siano qui maggioranza. […]
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