Usa 2020. Da dove vengono le proteste
La morte di George Floyd ha scatenato una serie di reazioni che però racchiudono molto altro, dai ritardi tipici degli Stati Uniti alla pandemia (e la conseguente crisi economica)
di Fabio Germani
Le proteste di questi giorni negli Stati Uniti stanno avendo un impatto notevole sulla campagna elettorale e non solo perché si è votato in un clima surreale per le primarie pochi giorni fa dopo il blocco dovuto all’emergenza sanitaria, ma soprattutto perché stanno facendo riemergere un terreno di scontro – tra il presidente Donald Trump e l’ormai certo candidato democratico alla Casa Bianca, l’ex vicepresidente Joe Biden – altrimenti appiattito sul tema, fondamentale, del coronavirus. Le due questioni, tuttavia, sono strettamente collegate tra loro.
La morte di George Floyd, 46enne afroamericano, avvenuta la scorsa settimana a Minneapolis, Minnesota, per asfissia a seguito di un fermo di polizia, più tutto quello che è seguito – manifestazioni (la maggior parte pacifiche, ma non sono mancati casi di vandalismo) anche in altre città come Washington, Seattle, Atlanta, Portland, Los Angeles e New York, dove a causa dei disordini (nella notte tra lunedì e martedì si sono registrati più di 700 arresti) il sindaco De Blasio ha esteso il coprifuoco per l’intera settimana, fino a domenica 7 giugno –, è il risultato di una ferita mai rimarginata e dalle origini antiche.
Secondo una ricerca del Pew Reserch Center, la quota di quanti considerano il Covid-19 una maggiore minaccia alla salute si attesta al 46% tra gli afroamericani e al 39% tra gli ispanici rispetto al 21% degli intervistati bianchi, ovvero tra le persone — per ragioni occupazionali e sociodemografiche — più esposte al rischio. Se si perde il lavoro — circostanza più probabile per chi svolge lavori precari, quindi, appunto, soprattutto persone afroamericane e ispaniche — quasi automaticamente si perde l’assicurazione sanitaria, con i risultati (negativi) che possiamo immaginare. Tale condizione riflette il retaggio di un contesto sociale che da sempre negli Stati Uniti interessa gli afroamericani in particolar modo. Superate le barriere della schiavitù, in America — soprattutto negli Stati del Sud — si è continuato a promuovere a lungo e in punto di diritto una cultura discriminante nei confronti dei neri. Le cosiddette Leggi Jim Crow sono state la punta dell’iceberg, ma tanti altri cavilli, ostacoli spesso subdoli, hanno continuato a rappresentare nel tempo un blocco incredibile allo sviluppo e alla completa emancipazione di un importante segmento demografico, seppur minoranza. In pochi, storicamente, migliorano le proprie condizioni di vita, non riuscendo ad accedere ai più elevati standard di istruzione che sono al contrario consentiti ai bianchi, con la conseguenza di essere impiegati — quando va bene — in lavori di solito sottopagati e incapaci di sostenere, ad esempio, le cure mediche, se necessarie. Una povertà diffusa che ancora oggi osserviamo e che la pandemia ha contribuito a scoperchiare. Di cambiamenti ne sono stati osservati nel corso degli anni, ma il processo appare piuttosto lento. L’ultimo, ad ogni modo, si è verificato pochi giorni fa: a Ferguson, città del Missouri, è stata eletta sindaco Ella Jones, la prima volta di una donna afroamericana. Una notizia importante perché al di là del ricordo di Michael Brown – il 18enne ucciso dalla polizia nel 2014 e teatro anche all’epoca di numerose proteste poi estese al resto degli Usa –, Ferguson è un tipico esempio di città con una scarsissima rappresentanza di afroamericani nelle istituzioni, malgrado siano qui maggioranza.
La situazione così degenerata, nel frattempo, ha spinto Joe Biden a farsi vedere finalmente in giro. Durante il lockdown, infatti, si era rinchiuso in casa, provando a sostenere la campagna elettorale online. Le prime mosse di Biden sono state quelle di mostrare solidarietà ai manifestanti di Wilmington, nel Delaware, dove vive. Il presidente Trump, invece, ha fatto sì richiesta immediata di giustizia e indagini rapide sul caso Floyd, ma ha anche stigmatizzato i comportamenti più violenti osservati nelle proteste, non escludendo l’impiego, se necessario, della Guardia nazionale (c’è un precedente: nel 1992 l’allora presidente Bush inviò l’esercito a Los Angeles per mettere fine ai disordini durati una settimana e costati all’incirca 60 vittime, scoppiati dopo l’assoluzione degli agenti che pestarono Rodney King l’anno prima). Non sono però mancate le polemiche, sia per le reazioni delle forze dell’ordine come a Washington, sia per la retorica spesso dura utilizzata dall’inquilino della Casa Bianca. I sondaggi, ad oggi, danno Joe Biden ampiamente avanti, anche se a questo punto della campagna elettorale potrebbero significare poco. Gli osservatori sono però divisi nelle opinioni. Alcuni ritengono che i riots possano avvantaggiare effettivamente Biden, soprattutto se riusciranno a mobilitare i giovani coinvolti trasversalmente nelle proteste (al riguardo è intervenuto anche l’ex presidente Obama); altri sono convinti che il senso di necessità di sicurezza dettato da Trump possa ancora prevalere in vista del voto di novembre.
Di sicuro, intanto, c’è che l’economia – che soltanto a inizio anno premiava il presidente – subirà ora un ulteriore colpo, con tanti esercenti costretti di nuovo, dopo il lockdown, ad abbassare la saracinesca in molte città. Una tegola in più, per l’attuale amministrazione.
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