Oltre 7,2 milioni di occupati in Italia hanno lavorato da remoto con la pandemia
Un’esperienza che nel 55% dei casi è stata giudicata positiva, anche se nel rapporto Inapp sul tema si osservano alcune criticità
di Redazione
Prima della pandemia erano 2.458.210 (pari all’11%) gli occupati che lavoravano da remoto. Nel 2021 i lavoratori agili sono saliti a 7.262.999 (facendo balzare la quota sul totale degli occupati al 32,5%). Il 46% dei lavoratori vorrebbe continuare a svolgere la propria attività in modo agile almeno un giorno e, quasi uno su quattro, tre o più giorni a settimana. È quanto emerge dal policy brief Il lavoro da remoto: le modalità attuative, gli strumenti e il punto di vista dei lavoratori, realizzato dall’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche pubbliche (INAPP) attraverso l’indagine Plus con un campione di oltre 45 mila interviste (dai 18 ai 74 anni) nel periodo marzo-luglio 2021.
Guardando alla distribuzione dei giorni lavorati da remoto nel 2021, nel rapporto si osserva che quasi il 50% era impegnato in modalità agile da tre a cinque giorni a settimana e solo l’11,6% per un solo giorno. Gran parte del lavoro da remoto si è realizzato su base fiduciaria: solo per il 16,5% è stato frutto di un accordo collettivo e per il 14,3% di un accordo individuale; per quasi il 37% dei lavoratori da remoto non c’è stata, invece, alcuna formalizzazione.
Il rapporto spiega poi che molteplici sono state le modalità organizzative introdotte per agevolare e sostenere il lavoro da remoto. Sia nel pubblico (71,5%) che nel privato (64,4%) sono state attivate soprattutto piattaforme digitali per lo svolgimento delle riunioni a distanza. Il 62,1% delle aziende private e il 41,9% della PA ha fornito dispositivi informatici ai lavoratori e alle lavoratrici. L’attivazione di protocolli di sicurezza informatica ha interessato oltre il 56% dei datori di lavoro. Inoltre, nel settore privato sono state messe in campo varie azioni volte, non solo a consentire lo svolgimento del lavoro agile nell’immediato, ma anche ad armonizzare le condizioni attuali con le prospettive future, investendo in formazione (46,8%), fornendo attrezzature ergonomiche (25,7%) ed erogando un contributo (22,2%) ai dipendenti.
In merito al tema del rischio di connessione continua, il settore privato appare più virtuoso, con il 65% dei lavoratori del comparto che dichiara di poter scegliere in modo autonomo quando disconnettersi contro il 50,1% di quelli del pubblico. Per quanto attiene invece alla connessione any-time, a fronte di un dato complessivo del 32,8%, nel pubblico la quota scende al 26,9%, mentre nel privato sale al 34,5%. In merito alla possibilità di fare brevi pause, una quota particolarmente elevata (78,2%) non manifesta criticità, ma oltre il 49% dichiara di potersi disconnettere solo per la pausa pranzo.
Il lavoro agile, seppur realizzato in contesti organizzativi non preparati e con infrastrutture tecnologiche spesso inadeguate, è stata un’esperienza positiva. Il 55% dei lavoratori – si legge infatti nel resoconto del rapporto – esprime un giudizio positivo sull’esperienza complessiva di lavoro da remoto, ma su alcune specifiche questioni le valutazioni sembrano evidenziare criticità: quasi il 64% ritiene che il lavoro da remoto generi isolamento e circa il 60% che non aiuti nei rapporti con i colleghi; in più, per oltre il 60% risulta problematico l’aumento dei costi delle utenze domestiche. Al contrario è decisamente positiva la valutazione sulla libertà di organizzare il lavoro e gestire gli impegni familiari. Oggi la metà delle professioni qualificate può erogare oltre il 50% della prestazione da remoto a fronte di un decimo delle professioni non qualificate. Questa segmentazione è frutto della natura della prestazione e di una cultura organizzativa che deve essere aggiornata alla luce dell’esperienza del lavoro agile.