Lavoro: i numeri (ancora) critici per donne e giovani
Dai soliti problemi (divari e salari bassi) ai nuovi stili di vita, così cambiano le dinamiche del mercato del lavoro italiano
di Redazione
I problemi del mercato del lavoro italiano sono pressoché noti, un quadro d’insieme che, nonostante i miglioramenti registrati negli ultimi anni – al netto, dunque, dei ritardi che si sono aggravati con la pandemia – mostra ancora le sue zone d’ombra. Soprattutto per donne e giovani.
Analizzando i dati Istat relativi al 2021, infatti, si scopre che il divario di genere resta piuttosto ampio. Più di 17 punti, infatti, si distanzia il tasso di occupazione maschile (67,1%) da quello femminile (49,4%), a fronte di un valore complessivo che si attesta al 58,2%. In un modo quasi analogo, il tasso di disoccupazione è maggiore per la componente femminile (10,8%), mentre per gli uomini è all’8,9%, stavolta a fronte di un 9,7% totale. Sono addirittura 18 punti, invece, quelli che separano il tasso di inattività tra le donne (44,6%) e tra gli uomini (26,4%), quando nel complesso è al 35,5%. Inoltre, tra le donne occupate, il 73,9% risulta senza figli, ma la quota scende al 53,9% nel caso in cui abbiano almeno un figlio minore di sei anni. Un tema, quest’ultimo, ricorrente e da sempre non scevro da polemiche e dibattiti anche aspri.
Per quanto riguarda i giovani, l’aspetto più negativo riguarda i Neet (i 15-29enni di che non sono occupati né in istruzione e formazione). Si tratta di uno degli argomenti presenti nel recente rapporto presentato dai Giovani Imprenditori di Confartigianato dal titolo 2022. Tocca a noi!. La distanza dei ragazzi italiani dal mondo del lavoro, viene spiegato a tale proposito, colloca il nostro paese al primo posto nella UE per la maggiore percentuale di Neet, pari al 23,1%, sul totale dei giovani tra 15 e 29 anni. La media europea si attesta, invece, al 13,1%. Ma c’è di più: nel 2020 abbiamo toccato il numero più alto nell’ultimo decennio di under 35 inattivi che non studiano e non sono disponibili a lavorare: ben 1.114.000.
Il periodo della pandemia è stato in qualche modo catalizzatore di nuovi trend. Il fenomeno delle dimissioni volontarie, ribattezzato Great Resignation, è uno di questi. I numeri italiani sono lontanissimi da quelli, decisamente più alti, statunitensi, ma si stima che nel nostro paese dimissioni di questo tipo siano ammontate già a due milioni. Le motivazioni possono essere molteplici, si va dalla ricerca di un impiego che permetta una maggiore fruizione del tempo libero alle prospettive di crescita personale e salti di carriera – soprattutto tra i giovani ultra-qualificati che si sentono stretti tra le maglie del “vecchio” lavoro –, dalle difficoltà di conciliare lavoro e vita familiare fino alle ruggini all’interno dell’ambiente lavorativo in cui, nei casi più gravi, non si è più disposti a scendere a compromessi.
Chiaramente il salario è un aspetto fondamentale, capace spesso di motivare, da solo, le ragioni che possono spingere molti a lasciare il vecchio impiego (o a rifiutare determinate proposte), tanto più ora che diverse imprese lamentano serie difficoltà nel reperimento di risorse e collaboratori. Spesso è anche alla base delle scelte, non così inusuali prima della pandemia tra i giovani, di abbandonare l’Italia. Nel nostro paese i salari sono rimasti a lungo al palo. E secondo una rilevazione dell’Ocse, tra il 1990 e il 2020, mentre nella maggior parte dei paesi dell’Eurozona si sono osservati incrementi dei salari annuali medi, in Italia si è addirittura osservata una flessione del 2%. Un problema di non poco conto, che mina la qualità del nostro mercato del lavoro.