Usa 2024. Chi è J.D. Vance, il candidato vice di Trump | T-Mag | il magazine di Tecnè

Usa 2024. Chi è J.D. Vance, il candidato vice di Trump

Manager, scrittore, senatore: ritratto del “running mate” scelto dall’ex presidente in vista delle elezioni di novembre

di Fabio Germani

C’è stato un tempo in cui nel campo conservatore non mancavano le voci critiche nei confronti di Donald Trump. Lo scenario era allora diverso e J.D. Vance era una di quelle voci, per giunta una delle più severe. La situazione cominciò a cambiare quando l’esponente repubblicano vinse le presidenziali del 2016 contro Hillary Clinton. Ma non per Vance, il quale rimase scettico, per non dire di peggio, ancora a lungo. Il cambio di rotta è arrivato più o meno con l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, dopo le contestate elezioni, da parte di Trump, del 2020. Dapprima la decisione di candidarsi al Senato tra le file repubblicane – seggio che riuscirà a ottenere alle midterm del 2022 – e infine il riallineamento su posizioni ultra-trumpiane che gli varranno l’endorsement dell’ex presidente in persona, lo trasformeranno in un beniamino del movimento MAGA. La parabola politica di Vance è stata rapidissima se si considera che, entrato per la prima volta al Congresso a gennaio 2023, è stato ora scelto da Trump, a quasi 40 anni (che compirà ad agosto), per comporre il ticket repubblicano. A questo punto della storia, però, è opportuno riavvolgere di nuovo il nastro.

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Nato in Ohio, di umili origini scozzesi e irlandesi, James David Vance è un ex marine (è stato in Iraq per circa sei mesi nel 2005 come corrispondente militare) e un ex manager con una laurea in legge a Yale, tra le più prestigiose università americane. Diventò una celebrità nel 2016, quando, pochi mesi prima delle presidenziali, uscì nelle librerie statunitensi il suo memoir, Hillbilly Elegy, che in Italia verrà tradotto con il titolo di Elegia Americana. Il libro fu subito un caso editoriale, rapido quanto lo sarà la futura ascesa politica del suo autore, da cui deriverà anche l’adattamento cinematografico del 2020, diretto da Ron Howard

«Hillbilly» è un termine che negli Stati Uniti sta a indicare, in estrema sintesi, i bianchi poveri, spesso – attingendo dal libro di Vance – considerati «buzzurri» e «montanari». Non è la sola parola utilizzata per etichettare questa categoria di persone. A volte si ricorre a «redneck» o a «white trash», molto dipende dal contesto sociale e dalla collocazione geografica. Dovrebbe perciò non stupire se nel 2016, con la vittoria elettorale di Trump, Elegia Americana divenne il testo di riferimento in molti circoli intellettuali per tentare di spiegare il perché di una radicale (ma non del tutto inattesa) trasformazione politica. 

In altre parole, questa la convinzione che via via andava emergendo in diversi ambienti, il libro di Vance era la voce dei bianchi rimasti ai margini del sogno americano, in particolare della classe operaia in declino nelle aree deindustrializzate degli Appalachi, ridotti al pessimismo anche più di altre categorie sociali storicamente svantaggiate (neri e talvolta latini e asiatici). Tutto questo al netto della sua storia personale, che è invece una vicenda di riscatto e di realizzazione, ma che per ammissione dello stesso Vance – già nell’introduzione di Elegia Americana – non può prescindere dalle difficoltà che lo hanno forgiato. 

Ancora nell’introduzione, Vance accenna alla “regina del welfare”, espressione di solito associata all’immagine di «una mamma nera pigra» che provvede al sostentamento proprio e dei figli attraverso gli assegni sociali, avvertendo tuttavia di aver conosciuto molte “regine del welfare”, le quali – informa – «alcune erano mie vicine di casa, ed erano tutte bianche». The welfare queen è uno stereotipo in principio dovuto al rapporto del 1965 di Daniel Patrick Moynihan, futuro senatore ma all’epoca assistente segretario al dipartimento del Lavoro (alla Casa Bianca c’era Lyndon B. Johnson e si era nel pieno della stagione dei diritti civili), diffuso in pochissime copie, poi accantonate, che si concentrava sulla tipicità della famiglia nera, una struttura per svariate ragioni perlopiù matriarcale – secondo chi aveva condotto l’analisi –, avulsa al resto della popolazione. La delusione di numerosi cittadini bianchi, specie i “dimenticati” della Rust Belt – la regione distribuita tra i monti Appalachi e i Grandi laghi, rappresentativa del crepuscolo industriale dovuto alla delocalizzazione e alla crescente automazione dei processi produttivi, che nel 2016 fu illustrata come il serbatoio alla base del successo di Trump – ha alimentato un pervasivo senso di frustrazione e, come si vedrà negli anni successivi, ha inoltre accresciuto le tensioni sociali e razziali nel paese. Quello delle “regine del welfare”, seppure, beninteso, utilizzato da Vance quale espediente dimostrativo e narrativo, è uno dei tanti esempi possibili in grado di marcare una sempre più convinta ostilità all’idea di “privilegio bianco”, facendo invece emergere una spaccatura all’interno della medesima comunità, che brutalmente potremmo suddividere in chi lavora e chi no. Sarà un elemento, quest’ultimo, che tornerà utile per comprendere meglio il suo pensiero politico.

Sebbene i presupposti potessero collocarlo immediatamente in un’ipotetica “area trumpiana”, Vance era per nulla fan di colui che a pochi mesi dall’uscita del suo libro sarebbe stato eletto presidente degli Stati Uniti. Invitato spesso dalle tv, non lasciava trasparire questo sentimento di avversione. Come e quando è mutato il proprio punto di vista, l’attuale candidato a vicepresidente repubblicano lo ha spiegato di recente al New York Times. Serve un ulteriore passo indietro. L’incontro con il miliardario della Silicon Valley e sostenitore del GOP, Peter Thiel – che i media statunitensi fanno risalire intorno al 2011 –, fu un momento decisivo per la carriera, lavorativa e di seguito politica, di Vance. I rapporti tra Thiel e Trump non sono stati sempre dei migliori, ma nel 2021 – nel mentre Vance aveva lavorato per il cofondatore di PayPal – fu il “ponte” tra l’ex presidente e l’autore di Elegia Americana, il quale ora aveva cominciato a nutrire ambizioni congressuali. È a quel punto che l’atteggiamento nei confronti di Trump subisce un’autentica virata. 

Torniamo così alla conversazione con il NYT. La versione breve è che, rendendosi conto di come determinati circoli, appunto imprenditoriali e intellettuali, giudicassero e sfruttassero la sua immagine pubblica derivante dal libro scritto alcuni anni prima, comprese di non essere nel posto in cui si sarebbe sentito più a suo agio: al fianco dei lavoratori. In questo senso, capì anche di essersi concentrato in modo eccessivo sullo stile incendiario di Trump e non sulla sostanza, che al contrario sapeva di poter condividere. Perciò iniziò anche a manifestare posizioni più morbide sui fatti del 6 gennaio 2021 e a sposare l’agenda del corso trumpiano, dall’economia alla politica estera. 

Un assaggio di tutto ciò, il senatore dell’Ohio lo ha dato pochi giorni fa, presentandosi alla platea della convention repubblicana di Milwaukee durante il discorso di accettazione della candidatura a vicepresidente: la difesa dei lavoratori rispetto a Wall Street; una gestione più rigida dei flussi migratori, «alle nostre condizioni» (sua moglie, Usha Chilukuri, è di origini indiane, «sono sposato con una figlia di immigrati dell’Asia meridionale in questo paese, persone incredibili, persone che hanno davvero arricchito il paese in tanti modi», ha osservato al riguardo); una politica più isolazionista nello scacchiere internazionale, in cui gli alleati degli Stati Uniti «condivideranno l’onere di garantire la pace», ma «niente più corse gratuite per le nazioni che tradiscono la generosità dei contribuenti americani».

Negli ultimi anni la scelta dei vice è ricaduta spesso su figure politiche che potessero compensare le lacune del candidato a presidente (può tornare in mente la decisione di Barack Obama con Joe Biden), oppure capaci di completare il ticket e mettere d’accordo all’incirca tutte le anime del partito, come accadde nel 2016 con Mike Pence al fianco di Trump, non necessariamente in una direzione moderata, al limite più tradizionale del conservatorismo statunitense (come si sia conclusa la collaborazione tra i due è un altro paio di maniche). Ma stavolta Trump non ha avuto questa esigenza. La compattezza che ruota attorno alla sua piattaforma programmatica gli ha permesso di nominare un candidato che in definitiva, secondo molti osservatori, gli assomiglia in tante sfaccettature, addirittura più energico su alcuni temi, quelli etici in primo luogo (si pensi all’aborto). C’è addirittura chi ritiene che Trump abbia scelto un successore alla guida del movimento MAGA. Di sicuro, al momento, c’è che il ticket Trump-Vance è orientato a “riconquistare” il Midwest, che potrebbe rivelarsi determinante nel voto di novembre, ma forse non nelle modalità attese. 

Con il passare del tempo è avvenuta infatti una revisione che include in qualche misura anche l’opera Elegia Americana. Chi ha espresso dubbi, sostiene, dati alla mano, che il “peso” della classe operaia descritta da Vance non è stato così decisivo nel successo elettorale di Trump del 2016, mantenendosi su livelli analoghi a quelli dei decenni precedenti, quando cioè la working class si è gradualmente avvicinata al Partito repubblicano. È il 35% degli statunitensi, secondo una rilevazione Gallup del 2022, a dichiararsi «classe operaia», ma come viene notato sul Los Angeles Times, i sostenitori di Trump avevano un reddito medio più alto di quelli di Hillary Clinton o di Bernie Sanders, circostanza che insinua dunque dei dubbi su una parte consistente di narrazione legata all’affermazione dell’ex presidente.

Secondo un sondaggio YouGov, il 27% degli intervistati considera positiva la scelta di Vance quale vice di Trump (il 12% la giudica la migliore possibile; il 15% buona, ma non la migliore), di tutt’altro avviso il 20% (per l’11% si tratta di una scelta sbagliata, ma non la peggiore; per il 9% la peggiore possibile). In generale il pubblico si mostra alquanto diviso sul suo conto: il 29% dice di avere di Vance un’opinione favorevole (molto il 14%, abbastanza il 15%), stessa quota di chi riferisce un’opinione sfavorevole (un po’ il 7%, molto il 22%).

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