Usa 2016. Il presidente alla prova del Congresso
La popolarità di Donald Trump risulta in crescita a poco più di due settimane dalla sua elezione. A dirlo è un sondaggio di Politico/Morning Consult. Il 46% degli elettori dichiara di essere favorevole o molto favorevole a Trump, mentre il 12% esprime un parere negativo e il 34% afferma di avere un’opinione molto contraria. La quota di quanti ora hanno un giudizio positivo nei suoi confronti è aumentata di nove punti percentuali da prima delle elezioni, quella dei contrari è invece scesa di 15 punti. Il presidente uscente Barack Obama mantiene un alto indice di gradimento, con il 54% degli intervistati che approva il suo lavoro. Anche in questo caso si registra un aumento dal 50% precedente le elezioni.
È in questo quadro, apparentemente contraddittorio, che il presidente eletto ha presentato in un breve video di due minuti e mezzo l’agenda di governo nei primi cento giorni alla Casa Bianca. Tra i punti salienti: ritiro degli Stati Uniti dal Trans-Pacific Partnership (TPP, il trattato di libero scambio – non ancora ratificato – che coinvolge 12 paesi dell’area pacifica: Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam e Stati Uniti), che Trump in campagna elettorale ha più volte sostenuto essere dannoso per le aziende e i lavoratori americani; immigrazione, sottolineando di voler mettere in pratica una politica restrittiva sui visti (sempre a favore dei lavoratori); energia, cancellando le norme a scapito della produzione e del lavoro nel settore; sicurezza, con particolare riferimento anche alla difesa dagli attacchi informatici. In più ha promesso una maggiore semplificazione (per ogni nuova morma, due vecchie saranno eliminate) e un maggiore controllo sulle attività successive di chi ha lavorato nell’amministrazione o al Congresso, in pratica la proposta di un bando di cinque anni sulla possibilità di diventare lobbisti e un bando a vita sull’ipotesi che le stesse persone lo diventino per conto di governi stranieri.
E non è tutto. Ospite per una lunga intervista live su Twitter (meeting dapprima programmato, dopo cancellato e in seguito riconfermato) nella sede del New York Times – giornale tra i più critici della sua condotta in campagna elettorale –, Trump non ha escluso di rivalutare l’ipotesi di un cambio di direzione relativo all’accordo sul clima di Parigi, ha poi ribadito di non voler procedere contro Hillary Clinton per il mailgate e auspicato la pace tra israeliani e palestinesi (con un ruolo da protagonista, si intende).
IL BILANCIAMENTO DEI POTERI
Come si osserverà non c’è stato, finora, alcun riferimento al muro da costruire al confine con il Messico allo scopo di arginare i flussi migratori né alla cancellazione dell’Obamacare, la riforma sanitaria del 2010. È probabile che Trump, mentre il transition team è al lavoro per puntellare la squadra della nuova amministrazione, per i primi cento giorni stia puntando il più possibile ad un programma che sia immediatamente applicabile. Il presidente degli Stati Uniti, che pure ha ampia facoltà di azione, lavora in un contesto di controbilanciamento dei poteri, tra Corte Suprema (che è la più alta corte federale degli Stati Uniti, composta da nove membri) e Congresso (che rappresenta il potere legislativo ed è a maggioranza repubblicana dopo il voto dell’8 novembre). Se si è in presenza di un seggio vacante all’interno della Corte Suprema è il presidente che provvede alla nomina. A febbraio è morto il giudice Antonin Scalia e Trump non ha fatto mistero di voler assegnare il posto ad un membro conservatore, affossando così la candidatura di Obama di Merrick Garland, molto più che il Senato – cui spetta il controllo sulle nomine ai ruoli apicali dell’amministrazione – potrebbe favorire la scelta del presidente eletto. Insomma, Trump avrà l’opportunità di non trovare particolari ostacoli nel suo cammino, ma prima dovrà saper mediare e garantirsi una maggioranza di fatto, considerando che – ad oggi – il sostegno di tutti gli esponenti della sua parte politica non è così sicuro.
ALLA PROVA DEL CONGRESSO
Il New York Times ha messo in fila una serie di azioni politiche – tra quelle previste nel suo programma – per cui Trump necessiterebbe o meno dell’appoggio del Congresso. Ad esempio abrogare e rimpiazzare l’Obamacare (sebbene nelle prime interviste da presidente eletto abbia utilizzato toni più concilianti al riguardo) è uno dei provvedimenti di cui si avrebbe bisogno dell’approvazione. Stessa situazione per la costruzione del famigerato muro o tagliare le tasse (altro cavallo di battaglia in campagna elettorale). Anche il disegno di legge sulla sicurezza o quello sull’attività di lobbying – che rientra nell’ambito di quella che è stata definita “riforma dell’etica” – devono prima passare per il Congresso, ma forse su questi punti il team di Trump prevede soluzioni in un lasso di tempo più breve. Su altre questioni, tipo lasciare il TPP, Trump potrà agire senza il parere del Congresso. Tra queste anche ripristinare i vecchi regolamenti ambientali o annullare le misure intraprese da Obama sui controlli preventivi per la vendita di armi. C’è da ricordare, infatti, che il presidente uscente, al cospetto di un Congresso a lungo ostile, è spesso ricorso ai decreti esecutivi. Che Trump potrebbe, in teoria, cancellare con un colpo di penna.
Le puntate precedenti:
Usa 2016. Trump, le elezioni e Facebook
Usa 2016. La vittoria (poco?) a sorpresa di Trump
Usa 2016. La corsa a incontrare Donald Trump
Usa 2016. La sociologia del voto
Usa 2016. Il victory speech di Donald Trump