Il lavoro che cambia. «La sfida è sostenere le persone più a rischio»
Il mercato del lavoro italiano ha registrato dei progressi, ma dal solo punto di vista quantitativo. Il lavoro aggiuntivo osservato negli ultimi mesi è “povero”: stipendi bassi, occupazione perlopiù a termine, scarsa qualità. E c’è dell’altro: nel dibattito non vengono affrontati mai abbastanza temi quali l’automazione e l’ingresso nelle fabbriche e negli uffici delle intelligenze artificiali. Quale futuro per le attività lavorative? Che fine faranno i lavoratori che hanno più da perdere nell’attuale fase di transizione? Argomenti che hanno poco impegnato la campagna elettorale. In compenso T-Mag ne ha discusso con Emmanuele Pavolini, professore in Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università degli Studi di Macerata. «Negli ultimi 25 anni – osserva il professore – abbiamo cercato di trasformare il mercato del lavoro senza renderci conto che una trasformazione in positivo dipende dal fatto che non si cambia soltanto un mattone del muro, ma si deve intervenire per mettere a posto tutti gli altri mattoni, altrimenti si creano dei buchi».
Gli ultimi dati Istat sul lavoro fanno riemergere un’annosa questione: è meglio averlo un lavoro, anche se precario, o servono maggiori sforzi al fine di armonizzare quantità e qualità?
In assenza di alternative sicuramente è meglio averlo un lavoro, anche se precario. Semmai il problema principale che si pone, non solo da noi, ma in Italia in particolare, è il rischio di restare intrappolati nei lavori precari. Quella che era la speranza fino a qualche anno fa, e cioè che il precariato fosse un trampolino di lancio per un lavoro successivamente più stabile, purtroppo non si è poi concretizzata. Essere precari oggi è un indicatore di una condizione analoga domani. Dunque, se l’alternativa è essere precari o disoccupati, è chiaro che la prima è la migliore. Non solo perché almeno si ha un reddito, ma soprattutto perché si resta attivi sul mercato del lavoro. Incentivi e vincoli alle imprese sul reiterato uso di contratti precari o flessibili di varia natura possono essere una soluzione. Al riguardo è opportuna però una riflessione. Sappiamo che in alcuni paesi si verifica una sorta di trade-off, di scambio: se vengono imposte alle imprese regole troppo strette per spingerle ad assumere a tempo indeterminato allora si avranno tassi di disoccupazione più alti. Si deve capire se è più opportuno abbassare la disoccupazione favorendo un po’ il precariato, oppure disincentivare l’utilizzo di contratti di quel tipo. Paesi come quelli scandinavi sono riusciti a contenere il fenomeno del precariato, in altri si registrano – appunto – tassi di disoccupazione più alti: o hai un lavoro stabile o sei disoccupato. Non c’è una regola valida ovunque. Vorrei però far emergere un elemento che spesso sfugge in questa discussione…
Prego.
Quando noi parliamo di lavoro instabile, pensiamo che corrisponda necessariamente solo ai lavori a termine. Bisogna tener presente che nella normativa italiana per le imprese sotto i 15 addetti, in cui è occupata una mole consistente di lavoratori, la possibilità che il datore possa mandarti a casa nonostante il tempo indeterminato è relativamente alta. Anche pima del Jobs Act, nelle piccole imprese, i tempi indeterminati non coprivano allo stesso modo delle medie e grandi imprese i lavoratori dal rischio di perdere il posto. C’è tutto un mondo in cui stanno – e stavano già in passato – più della metà dei lavoratori italiani. È chiaro che psicologicamente, per le persone, c’è una sostanziale differenza. Ad ogni modo sono fenomeni strutturali della nostra economia che non si possono far risalire alle ultime regolazioni.
A cosa è dovuto il recente “boom” di posti di lavoro a termine? Potrebbe essere riduttivo associare il trend alla diminuzione/fine degli incentivi introdotti nel 2015, oppure la questione è tutta qui?
Non è stato solo questo, anche se in parte spiega cosa è successo. Gli incentivi hanno spinto tutti quegli imprenditori che volevano fare un tempo indeterminato a farlo, accelerando inoltre i tempi sulle trasformazioni dei contratti, ora speriamo che la ripresa sia d’aiuto. Ma c’è da osservare, ancora una volta, un elemento di fondo strutturale: ci sono settori dell’economia in cui la competitività delle imprese è strettamente legata al costo del lavoro. Servizi di consumo, bar e ristoranti, una parte del commercio: imprese che tendono a ridurre quanto più possibile il costo del lavoro per essere competitive e stare sul mercato. Se noi creiamo sempre più posti in settori a bassa produttività, come tipicamente lo sono il commercio e il turismo, settori che peraltro assorbono molta forza lavoro giovanile, una delle strategie per mantenere i prezzi bassi o in linea con la concorrenza è proprio ridurre il costo del lavoro. Di conseguenza il ricorso, anche indiretto, a forme non standard dei contratti gioca un ruolo importante.
Le donne sono spesso svantaggiate nel mercato del lavoro. C’è stato un recupero dei livelli occupazionali negli ultimi anni, ma il divario con la componente maschile resta ampio. Come se ne esce?
Analizzando la partecipazione delle donne al mercato del lavoro per livello di istruzione si scopre che tra le laureate non c’è molta differenza tra l’Italia e i paesi del centro-nord Europa, in altre parole le laureate si comportano nella stessa maniera, in gran parte stanno sul mercato del lavoro. Le differenze si fanno sentire di più tra le diplomate, mentre diventa una voragine il gap che si osserva tra le donne a bassa istruzione. Servono politiche differenziate perché il dilemma, tra le donne laureate, non è “lavoro o non lavoro”, bensì “faccio figli o non faccio figli”. Quindi il mancato supporto alle donne laureate non lo si vede tanto in termini di partecipazione quanto in termini di tasso di natalità, brutalizzando un po’ la questione. Per le donne a bassa istruzione, invece, avviene il contrario: spesso entrano giovani nel mercato del lavoro e ne escono alla nascita del primo figlio, figuriamoci del secondo. La situazione può essere migliorata soltanto se si cominciano a fare politiche di conciliazione in maniera molto più robusta delle attuali. Siamo il fanalino di coda tra i principali paesi europei per spesa ed interventi per politiche di conciliazione, che significa asili nido e servizi a costi accessibili. Inoltre abbiamo il doppio mix di pochi posti disponibili nei nidi e un carico non indifferente sulle famiglie. Non possiamo immaginare altri tipi di soluzione.
Al di là delle difficoltà legate ad una ripresa economica che appare ancora fragile, è vero anche che il mondo del lavoro sta cambiando: automazione dei processi produttivi, impiego di robot e intelligenze artificiali nelle fabbriche e negli uffici sono realtà che ormai cominciano ad essere consolidate. A quanti manifestano preoccupazioni, cosa si può rispondere?
Non c’è una risposta univoca. Noi abbiamo due scenari. Il primo ci dice che robot e altri processi di digitalizzaione porteranno via il lavoro ovunque, dagli ingegneri ai lavoratori manuali. Personalmente ritengo questa prospettiva fin troppo pessimistica. La seconda teoria è secondo me la più appropriata e spiega molto di quello che sta succedendo socialmente e politicamente in diversi paesi occidentali: le trasformazioni tecnologiche sostituiscono oggi in maniera crescente i lavori manuali o impiegatizi di tipo ripetitivo. Che sono tipicamente i lavori operai da catena di montaggio e gli impiegatizi a minore valore aggiunto. Quello che osserviamo da 15 anni, e che con ogni probabilità proseguirà nel tempo, è la diminuzione di un segmento specifico del mercato del lavoro, mentre nei servizi si nota meno la robotizzazione, ad esempio nelle professioni di assistenza alle persone in cui l’interazione è un aspetto fondamentale. Dove diminuisce l’occupazione una parte degli operai potrà riqualificarsi, diventando tecnici e migliorando salari e condizioni di lavoro, ma l’altra parte verrà espulsa dal processo produttivo.
Dunque che si fa?
Quando le nostre imprese licenziano si tende a pensare subito che abbiano spostato la produzione altrove, e in alcuni casi è vero: chi investe in tecnologia può decidere di abbassare il costo del lavoro delocalizzando. Ma in molti altri casi lo fanno semplicemente perché, grazie alla tecnologia, hanno meno bisogno dei lavoratori semiqualificati. La nostra grande sfida è perciò sostenere la qualità della vita delle persone più a rischio, spesso capifamiglia. Ed è qui che si concentra lo stress. Non a caso il successo dei partiti anti-sistema in molti paesi deriva anche dal disagio che coinvolge i lavoratori che non si sentono evidentemente al sicuro, a causa dell’impiego di tecnologia o della delocalizzazione. Non è la prima volta che la tecnologia muta il lavoro, anche negli anni ’80 ci sono stati profondi cambiamenti, ma potevamo contare sul prepensionamento. Oggi non è più possibile per vincoli di bilancio, addirittura abbiamo alzato l’età pensionabile, un tassello che è sconsigliabile andare a rivedere. Però il problema reale si pone. Pensiamo a un 52enne che perde il lavoro, che non riesce a trovarne un altro e che non può andare in pensione. O si cominciano a fare politiche di formazione professionale, di reinserimento e di sostegno al reddito o corriamo il rischio di avere un numero sempre più alto di persone arrabbiate perché hanno perso il lavoro o molto preoccupate perché lo stanno perdendo.
Strumenti come il sistema duale, l’alternanza scuola-lavoro, possono essere un buon auspicio per la maggiore occupabilità dei nostri giovani? I casi di successo in Germania o nei paesi del nord Europa farebbero ben sperare…
Io all’alternanza scuola-lavoro ci credo e ritengo che sia importante. Tuttavia c’è sempre una questione che non viene capita sul modello tedesco. Il modello tedesco, per funzionare, ha bisogno di alcuni pre-requisiti e il primo è che ci sia un numero sufficientemente ampio di imprese di medie e grandi dimensioni che può investire sulla crescita dei ragazzi che vanno a fare i percorsi di alternanza. Nel modello tedesco, infatti, le aziende sostengono in maniera forte i costi di formazione dei ragazzi-studenti alle prese con il praticantato. Insomma, pur essendo un fautore dello strumento, mi rendo conto che in Italia c’è un limite dimensionale delle imprese che non possono economicamente sostenere quei costi. Richiedere da un lato una maggiore integrazione scuola-mercato del lavoro, ma dall’altro non mettere i soldi, che poi è il modello all’italiana, chiaramente non lo rende funzionale come in Germania. Non abbiamo una struttura produttiva adeguata per proporre il modello tedesco, diciamo così, “puro”, che invece apprezzo molto.
Storicamente, in campagna elettorale, il lavoro è uno dei temi centrali. Eppure rimane il sospetto che ancora oggi, come nel recente passato, non si dia il giusto peso ai mutamenti che pure stiamo osservando. Ci stiamo muovendo in una direzione di sviluppo – penso al Piano Industria 4.0 da poco declinato in Impresa 4.0 –, ma meno dibattuto è il tema dei diritti e delle opportunità per i lavoratori nel “nuovo” contesto sociale ed economico. La fase di trasformazione che tutti descrivono, non implica, ad esempio, la necessità di un’evoluzione dei sistemi di welfare e delle relazioni industriali?
Negli ultimi 25 anni abbiamo cercato di trasformare il mercato del lavoro senza renderci conto allo stesso tempo che una trasformazione in positivo dipende dal fatto che non si cambia soltanto un mattone del muro, ma si deve intervenire per mettere a posto tutti gli altri mattoni, altrimenti si creano dei buchi. Va benissimo sostenere processi come Industria 4.0, va benissimo implementare nuove regole di funzionamento del mercato del lavoro, ma se tutto ciò non viene accompagnato da adeguati strumenti di welfare, di sostegno ai redditi di chi nella transizione ci perde e di servizi – di nuovo: per le politiche attive e per la conciliazione – che aiutino i lavoratori e le lavoratrici a riadattarsi, allora è un problema. Ma di welfare si continua a discutere secondo le priorità di trent’anni fa, mentre le innovazioni e le regole vanno in una direzione opposta. Così facendo si allarga il gap tra i nuovi bisogni e la capacità effettiva del nostro welfare di coprire quei buchi lì. Per non parlare del problema, drammatico, dei lavoratori poveri, cioè gente che pur lavorando ha un reddito familiare sotto la linea della povertà.