Il paradigma della «quitting economy»
Tra i nuovi scenari del mondo del lavoro, non si parla più solo di smart working: da qualche tempo si è diffusa la definizione di quitting economy, tradotto come l’arte delle dimissioni. In questo “nuovo” paradigma non è il lavoro ad essere agile, ma il lavoratore stesso, libero di muoversi da un impiego ad un altro per un’individuale crescita professionale.
Anche se nella cultura italiana tale pratica appare di difficile applicazione (o anche solo di pensiero), lo scopo non è più il posto fisso, ma la spendibilità sul mercato del lavoro. Un buon impiego è tale quando permette di passare al prossimo, contribuendo a costruire in questo modo una propria professionalità facilmente rivendibile. Il dipendente dovrebbe considerarsi come un’impresa in miniatura, svincolato da qualsiasi legame. Questo principio non mette in discussione la correttezza professionale del job quitter che sviluppa una diversa forma di lealtà e appartenenza nei confronti dell’azienda e punta sulla rete di rapporti professionali. Da un lato investire su un dipendente per l’azienda significa anche poterlo veder tornare indietro, mentre dall’altro il lavoratore aumenta il proprio potere contrattuale tramite la possibilità di svolgere più ruoli e quindi acquisire competenze alienabili all’esterno e contestualmente alla fama delle aziende in cui presta lavoro.
A confermare la diffusione di questo orientamento intervengono alcune ricerche statunitensi – dove i millennials, secondo il rapporto di Linkedin, Economic Graph 2016, cambiano in media 2,85 posti di lavoro nei primi cinque anni dalla laurea, a fronte dell’1,6 della generazione precedente – dalle quali emerge che in un mercato occupazionale sano, cambiare lavoro garantisce un aumento dello stipendio maggiore del 20% rispetto a quello che si avrebbe tramite una carriera interna (soprattutto se all’inizio carriera) e che il 93% degli americani intervistati ammette di aver conquistato l’ultimo avanzamento cambiando società.
Il mercato del lavoro statunitense è diverso da quello italiano, ma il motivo economico non è il solo che permette la diffusione del paradigma della quitting economy, anche perché non è sempre garantito. Spesso un maggiore stimolo professionale e un migliore bilanciamento tra vita privata e lavoro sono alla base di scelte che vanno in questa direzione. Proprio per questo, secondo uno studio del Politecnico di Zurigo e dell’University of Anglia, tra i fattori che più incidono sul “nomadismo professionale” risultano più determinanti variabili quali la minore età del lavoratore e il suo maggior livello di istruzione, condizioni che possono produrre tipi di “benefit” – quindi esterni all’azienda per cui si lavora – ritenuti talvolta più soddisfacenti.