Lavoro, cosa dice il rapporto Eurostat
Sarebbero 8 milioni e 250 mila le persone che hanno rinunciato a cercare un impiego nell’Unione europea a 27. E l’Italia è maglia nera con 2 milioni e 764 mila, pari all’11,1% della forza lavoro (in altre cifre un italiano su tre). Quelli del rapporto Eurostat Underemployed and potentially active labour force statistics sono dati che fanno riferimento al 2010 e che, soprattutto, fanno il paio con altri già analizzati dal nostro giornale relativi ai neet, un acronimo inglese che indica coloro che non studiano, non lavorano, non si formano, non cercano un’occupazione. “In Italia – riportavamo già all’epoca – sono circa due milioni, giovani e giovanissimi, spesso donne. Una popolazione in continuo, costante aumento”.
Gli altri Paesi che presentano una situazione economica altamente a rischio possono vantare su questo fronte cifre più incoraggianti: 1,1% della forza lavoro in Grecia, 1,8% in Irlanda e 4,2% in Spagna. L’Italia, dunque, si colloca non alla stregua bensì distaccata (e neppure di pochissimo) da quei Paesi in cui il mercato risulta bloccato al punto da indurre le persone a rinunciare a cercare un lavoro. Parliamo dell’8,3% in Bulgaria e dell’8% in Lettonia.
Che il nostro Paese necessiti di una riforma del mercato del lavoro che incentivi in particolare l’occupazione giovanile e femminile è più che mai evidente. Nella giornata di lunedì il ministro Elsa Fornero ha incontrato in due distinti momenti i segretari di Cisl e Uil, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Nei colloqui, hanno fatto sapere i diretti interessati, non è emerso alcunché riguardo l’articolo 18. Tuttavia pare che l’idea allo studio del governo sia quella di semplificare il mercato riducendo le attuali 46 forme contrattuali a cinque, sei. Non è affatto escluso a tale proposito un incontro collegiale che includa anche la leader della Cgil, Susanna Camusso (peraltro la prima ad essere ricevuta dal ministro Fornero alcuni giorni fa). Sul tema del lavoro, il Pd a breve (giovedì con ogni probabilità) presenterà una sua proposta in qualche modo riferita da Pier Luigi Bersani a Otto e mezzo. Una sintesi delle tante avallate negli ultimi tempi e che sembra accantonare (ma non troppo) il modello danese della flexsecurity del giuslavorista e senatore democratico Pietro Ichino. “Bisogna avere un contratto prevalente di ingresso – ha spiegato Bersani –, che riassuma una serie di quelli esistenti e che dica fino a quanti anni chi entra nel lavoro ha una tutela crescente e se viene licenziato non si applica l’articolo 18, ma un’indennità in proporzione al tempo passato. Conclusa questa fase, che può durare fino a tre anni, si applicano i diritti, compreso l’articolo 18”.
C’è da dire, tuttavia, che il governo non ha mai nascosto l’intenzione di cambiare atteggiamento rispetto ad alcuni specifici temi, per la serie: “Niente deve essere considerato un tabù”. E in questo senso, per quanto non rappresenti la maggioranza all’interno del Pd, la ricetta Ichino è stata presa in considerazione da più parti. In sostanza significherebbe garantire le tutele previste (compresa quella dell’articolo 18) a chi già lavora, mentre per i nuovi assunti rendere possibile la licenziabilità anche per motivi economici (ad esempio in caso di ristrutturazione dell’impresa) dietro un’indennità pagata dal datore e assecondando, allo stesso tempo, un facile reintegro nel mondo del lavoro.
Ma cosa suggerisce ancora il rapporto dell’Eurostat? In Belgio (0,7%), Francia (1,1%) e Germania (1,3%) il numero degli inoccupati che hanno perso la speranza è ai minimi. Dunque è presumibile che – a differenza di ciò che avviene in Italia – altrove si tenda ad accettare più volentieri impieghi al di sotto delle proprie esperienze e competenze. I cosiddetti sotto-occupati (per lo più part-time) sono oltre 2,2 milioni in Germania, 1,6 milioni in Gran Bretagna e 1,2 in Francia. In Italia, al contrario, sono solo 434 mila pari all’1,7% della forza lavoro.