L’osservatorio. Perché cresce il “non voto”
La curva della partecipazione continua a puntare verso il basso e l’area del consenso ai partiti si riduce sempre più. E’ questa, anche a marzo, la sintesi dei risultati dell’indagine realizzata da Tecnè.
Un’emorragia di consensi che riguarda innanzitutto PD e PDL e che si riversa, prevalentemente, verso l’area dell’astensione. Prendendo come riferimento le politiche del 2008, a fronte del 28,8% di elettori in uscita dai due principali partiti, nessuna formazione evidenzia flussi in entrata particolarmente significativi. Le performance migliori, in termini di consensi, sono quelle dei partiti che non erano presenti alle scorse elezioni politiche. Anche per queste forze, però, il saldo inevitabilmente positivo, non è tale da far presagire un sicuro successo.
Una situazione che rende azzardata qualsiasi ipotesi che riguarda gli esiti futuri di un possibile confronto elettorale. Una parte d’indecisi e di elettori oggi orientati verso l’astensione, potrebbe scegliere di recarsi alle urne il giorno delle elezioni. E ne basterebbero due su dieci per rovesciare la geografia politica che emerge dalle stime più recenti, realizzate (è bene tenerlo sempre presente) usando come base di calcolo soltanto chi dichiara il partito che voterebbe.
Le stime di questi ultimi mesi, quindi, più che lette come una tendenza, devono essere interpretate all’interno di uno scenario di forte cambiamento, che si distacca dalla tradizionale competizione destra/sinistra, e che ruota, prevalentemente, intorno alla scelta di votare o astenersi.
Un processo iniziato da anni, accelerato dalla crisi economica, che ha progressivamente dato corpo a uno scenario nuovo, il cui protagonista non è più “l’elettore incerto” che per anni ha ispirato la comunicazione politica dei partiti, ma “l’elettore in apnea” che non vede più i partiti tradizionali come i soli interlocutori in grado di dare risposte ai problemi legati alla sua quotidianità.
L’elettore incerto era di confine tra le diverse aree politiche e in cerca di risposte, e faceva la differenza tra un successo o una sconfitta nel momento in cui si sommava allo “zoccolo duro” del consenso più stabile e fedele. L’elettore in apnea – al quale l’innalzamento della complessità sociale prima e la crisi poi, hanno tolto ossigeno – non formula più domande alle quali i partiti non sembrano in grado di rispondere, soffre un deficit di riferimenti nel momento in cui i partiti hanno perso anche il tradizionale radicamento territoriale e tende ad auto-organizzarsi nel cercare le risposte più adatte ai suoi problemi contingenti.
Uno scenario completamente nuovo rispetto al passato, quindi, che si evidenzia nella progressiva trasformazione delle basi sociali dei partiti. Storicamente la sinistra aveva un consenso radicato nella classe lavoratrice di livello medio-basso, tra gli insegnanti, tra i disoccupati e tra chi viveva un disagio di natura economica e sociale. La destra, al contrario, aveva la sua base elettorale nel ceto imprenditoriale, tra i lavoratori dipendenti di fascia media e medio-alta e tra i commercianti. Per molti anni, in passato, il comportamento politico ha riflettuto, in qualche modo, il profilo sociale del Paese e quelli che erano i suoi bisogni.
Negli ultimi vent’anni la corrispondenza tra collocazione sociale e collocazione politica si è andata sempre più affievolendo, dando spazio, progressivamente, a nuove forme di relazione, determinate dalla stabilità sociale o, al contrario – e più appropriatamente – dall’instabilità. La dislocazione lungo l’asse centro/periferia sociale oggi non corrisponde più a una gradazione politica e al conseguente voto a un determinato partito, ma è subordinata alla scelta iniziale se andare a votare oppure no.
Le Politiche del 2008 sono indicative sotto questo punto di vista. Un’indagine realizzata da Tecnè all’indomani delle elezioni, ha rilevato che la partecipazione al voto tra i cittadini con uno status sociale alto è stata del 94% mentre tra quelli con uno status sociale basso soltanto del 60%. Sempre nel 2008 il centrodestra ha avuto sostenitori soprattutto tra gli artigiani e i commercianti, tra i lavoratori autonomi e i pensionati. La base del voto del centrosinistra è stata, per molti versi, complementare: dipendenti pubblici, dirigenti, insegnanti. Per entrambi gli schieramenti, quindi, il consenso è arrivato da elettori socialmente più stabili e integrati.
Con la fine della seconda Repubblica e l’accelerazione imposta dalla crisi economica, rispetto alle politiche, lo scenario ha preso una forma in cui la discriminante ruota quasi esclusivamente intorno all’astensione. Lo zoccolo duro dei partiti è ulteriormente assottigliato e la base del consenso ai partiti è prevalentemente rappresentata dai cittadini con uno status sociale medio-alto e alto, mentre la spinta anti-partitica, sostenuta dai disoccupati e dalle più insicure e precarie fasce di lavoratori di livello medio-basso e basso, si orienta verso l’astensione.
La crescita dell’area del non voto non è un abbandono della dimensione politica da parte dei cittadini ma la manifestazione del progressivo allontanamento tra la “società felice” e la “società delusa”. E Infatti, gli elettori astensionisti e incerti non sono tutti di destra, così come non sono tutti di sinistra, ma li unisce una visione del futuro incerta, una forte precarietà, un’evidente contrarietà verso le diverse forme di esercizio politico espresse dai partiti ormai incapaci di intercettare le nuove istanze di stabilità sociale.
E’ anche per questi motivi che l’argomento che riguarda le differenze tra cultura di Destra e cultura di Sinistra – almeno rispetto a come la storia, la tradizione e la società ci hanno abituati a intenderle e, pertanto, a riconoscerle – ha perso interesse. La crescente complessità delle società, generando di continuo nuovi ruoli sociali, inevitabilmente favorisce il moltiplicarsi d’identità provvisorie, rendendo gli elettori meno sensibili a richiami ideologici univoci e dati una volta per sempre. Allo stesso tempo il quadro attuale rende effettivamente difficile riconoscere una discriminante destra/sinistra, perché i partiti, progressivamente, hanno attenuato le differenze programmatiche, basandosi sul presupposto – giusto o sbagliato – che ci sono temi, come la stabilità finanziaria, rispetto ai quali distinguere tra destra e sinistra è meno importante che distinguere tra giusto e sbagliato. Si è affermata la convinzione che alcuni ambiti siano tecnicamente neutri e dunque abbiano bisogno di un terreno altrettanto neutro all’interno del quale esprimersi. È soprattutto nell’ambito economico che le differenze sembrano sfumare – peraltro molto più sulla scelta dei mezzi che nella determinazione degli obiettivi – dando luogo a un’offerta politica, formata da “pacchetti di issues” variabili nel tempo e da contesto a contesto, che difficilmente possono essere ricondotti a differenti correnti di pensiero.
La crisi politica è figlia della crisi che sta investendo il nostro Paese. Ma nonostante i partiti siano al centro di una “tempesta perfetta” faticano a diventarne consapevoli e sembra che nulla sia accaduto o che tutto debba ancora accadere. In realtà tutto sta già accadendo e la fase di forte instabilità è destinata a protrarsi fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio sociale e politico. E come tutti i processi sociali ciò avviene attraverso quattro fasi: stabilità; rottura dell’equilibrio; adattamento; nuovo equilibrio.
In questo momento ci troviamo nel secondo stadio e lo scenario pone questioni inedite che impone ai partiti di sapersi ripensare e riprogettare, lavorando, contestualmente, su “grandi scale” e su “piccole scale”.
Finché il cittadino non smarrirà la sua natura sociale, conseguentemente la politica non finirà di svolgere il suo ruolo di governo della società. Per questo, anche se inespresso, o sottaciuto, si sente il bisogno di una politica che sappia progettare e farsi carico di quell’interpretazione e rappresentazione della complessità che la società oggi richiede. E ciò è necessario proprio oggi, nel momento in cui il regno dell’economia volge al termine e la razionalità progressiva del neoliberismo si è dimostrata inadeguata. E nel cercare nuove ispirazioni e nuovi equilibri la politica non può prescindere dalla dimensione “locale”, intesa come dimensione “reale e vitale” d’individui che muovono, scelgono, agiscono, in funzione di sé e degli altri.
Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 19 marzo. Qui l’indagine Tecnè.
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