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Tra “cosificazione” e posti vacanti

di Fabio Germani

Joachim Israel, tanto per scomodare un sociologo della nostra epoca, direbbe che di questi tempi l’uomo viene giudicato per la sua produzione ancor prima che per il suo essere “persona” e non “cosa”. La cosificazione, in altri termini, è la tendenza “a trattare gli uomini come oggetti e a trasformare i rapporti umani in rapporti fra cose”. Anzi, ammoniva, a queste ultime vengono attribuite qualità umane. Israel faceva riferimento, ad esempio, a quelle locuzioni che descrivono un fenomeno come se fosse a se stante e non generato dall’uomo. “Noi diciamo ‘il corso delle azioni sale’ come se ciò non accadesse indipendentemente da coloro che speculano in azioni. Diciamo ancora che ‘la congiuntura è peggiorata’, ‘gli interessi aumentano’, ‘ la quantità di denaro è cresciuta’, ‘la produzione aumenta’, ‘i prezzi salgono’ e così via, come se a tutti questi processi non fossero partecipi uomini o come se l’agire dell’uomo fosse guidato da questi rapporti”.
Non andremmo molto in là leggendo o ascoltando i commenti di analisti, professori, osservatori a vario titolo l’indomani della diffusione dei dati Istat sulla disoccupazione. Che preoccupano ogni mese di più. Dal 9,1% di febbraio siamo passati al 9,3% di marzo. E quella giovanile è cresciuta ancora attestandosi al 31,9%. Ma “la disoccupazione sale” è la frase più appropriata per descrivere la realtà europea, salvo in otto Paesi dove è diminuita e le oasi felici che sono Austria (4,2%), Paesi Bassi (4,9%), Lussemburgo (5,2%) e Germania (5,7%).
La disoccupazione è naturalmente un sintomo della crisi economica. C’è più disoccupazione laddove non vi è crescita. Eppure se ci limitassimo a dire che non c’è lavoro perché c’è la crisi sosterremmo una tesi alquanto fuorviante. La Stampa ha elencato i posti vacanti (non sono pochi, tra l’altro) sulla base dei dati rilevati dalla Cgia di Mestre e Unioncamere. Nel 2011 – scrive il quotidiano –, per un totale di 45.250 posti di lavoro rimasti inoccupati, “le figure più difficili da rinvenire sono state quelle dei commessi (quasi 5.000 posti di lavoro non coperti); dei camerieri (più di 2.300 posti); dei parrucchieri e delle estetiste (oltre 1.800 posti); degli informatici e telematici (quasi 1.400 posti); dei contabili (quasi 1.270 posti); degli elettricisti (oltre 1.250) dei meccanici auto (quasi 1.250 posti); dei tecnici della vendita (1.100 posti); degli idraulici e posatori di tubazioni (più di 1.000 posti); e dei baristi (quasi 1.000)”. Una analisi analoga è quella del giuslavorista e senatore del Pd, Pietro Ichino, pubblicata lunedì dal Corriere della Sera (e inserita nella rassegna stampa di T-Mag).
Questo che appare un incredibile paradosso del nostro mercato del lavoro dipende anche dalle scelte dei singoli (corsi universitari che non offrono particolari opportunità, rinunce agli studi anzitempo). Ma spulciando i dati riportati dalla Stampa appare una volta di più evidente come in Italia il problema sia concentrato nell’ambito della scuola, della formazione e del recupero del ruolo dell’apprendistato. Un tema che abbiamo affrontato alcuni giorni fa e su cui oggi interviene sul Sole 24 Ore Carlo Dell’Aringa, professore di Economia politica all’Università Cattolica di Milano. “L’apprendimento dei giovani a scuola è scadente – affrerma Dell’Aringa –. Inoltre i nostri giovani raramente riescono a combinare lo studio con qualche esperienza di lavoro. In questi settori siamo molto indietro nelle classifiche calcolate dall’Ocse per i Paesi sviluppati. Abbiamo poi una attività di orientamento nettamente insufficiente, con molti giovani che scelgono la scuola e l’università sbagliate. La nostra offerta formativa è poi lacunosa: non abbiamo, come molti altri Paesi invece hanno, dopo la scuola secondaria, un percorso parallelo a quello universitario, di tipo tecnico-professionale. Infine – aggiunge il professore – la transizione dalla scuola al lavoro è un percorso accidentato, con periodi di brevi di occupazione alternati a frequenti periodi di disoccupazione e inattività”.

 

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