Un pezzo di storia italiana
Dei 94 anni di vita, 67 li ha trascorsi nelle Aule parlamentari; con la sua morte scompare l’unico parlamentare che dalla fondazione della Repubblica ad oggi non abbia mai “saltato un giro” in Parlamento: basta questo a far capire quanto Giulio Andreotti sia stato importante nella storia del Paese.
Romano, tifosissimo della Roma, classe 1919, Andreotti, dopo l’impegno nella Fuci, con Aldo Moro e sotto la direzione spirituale di Monsignor Montini (il futuro Paolo VI), esordisce in politica con l’elezione, nelle file della Dc, all’Assemblea Costituente nel 1946 (ma era già membro, su designazione di De Gasperi – del quale era braccio destro – della Consulta Nazionale, a far data dal 1945); da allora sempre rieletto alla Camera, fino alle elezioni del 1987, resta a Montecitorio fino al giugno 1991, quando viene nominato senatore a vita. Sette volte presidente del Consiglio, numerosissime volte ministro (soprattutto agli Esteri e alla Difesa), Andreotti ha incarnato, più di ogni altro uomo politico, il potere democristiano.
Ironico, sempre composto, ha attraversato da protagonista le quattro grandi fasi di coalizioni di governo della Prima repubblica: il centrismo degasperiano, il centrosinistra di Fanfani e Moro, il compromesso storico Dc-Pci, il pentapartito del CAF (acronimo delle iniziali dei suoi tre protagonisti, Craxi, Andreotti, Forlani).
Dei sette esecutivi da lui presieduti, due (il primo, nel 1972, a seguito della crisi del centrosinistra che portò alle dimissioni del governo Colombo, ed il quinto, dopo la fine dell’esperienza del compromesso storico, nel 1979) vennero bocciati al voto di fiducia, portando il Paese in entrambe le occasioni al voto anticipato.
Negli altri, Andreotti guidò, da Palazzo Chigi, il crepuscolo del centrosinistra (1972/73), l’intera fase dell’unità nazionale col Pci (1976/79), ed infine, il crepuscolo della Prima repubblica (1989/92).
Nei due governi di unità nazionale (due monocolori Dd, l’uno, della “non sfiducia”, con l’astensione di tutti gli altri partiti, Msi e Radicali esclusi, il secondo, con l’appoggio diretto dei partiti che costituivano il cosiddetto “arco costituzionale”, Pci in primis), si trovò alla guida dell’esecutivo per volere dei due protagonisti di quell’”equilibrio più avanzato”, ossia Moro e Berlinguer, i quali convennero sul fatto che, per rassicurare i settori moderati (Usa e Vaticano) che mal digerivano l’alleanza, da parte della Dc, con i comunisti, l’uomo giusto per Palazzo Chigi fosse proprio Andreotti. Il secondo di quei governi unitari (in cui il Pci era organico alla maggioranza) dovette gestire la drammatica fase del sequestro di Aldo Moro.
I suoi governi degli ultimi anni della Prima repubblica nacquero, invece, come mediazione tra Dc e Psi dopo lo scontro, annoso ed al calor bianco, tra i segretari dei due partiti, Ciriaco De Mita e Bettino Craxi, drammatizzatosi dopo le elezioni europee del 1989. Fu per Andreotti un vicolo cieco: poche realizzazioni (ma una fu importante: la prima legislazione organica sulla lotta alla mafia, con la consulenza di Giovanni Falcone) e un sostanziale immobilismo dal punto di vista economico, che determinarono il logoramento dell’intero sistema dei partiti. In realtà, il “Divo Giulio” più che a Palazzo Chigi puntava al Quirinale, dove il percorso per arrivare sarebbe passato (nelle sue intenzioni) da Strasburgo: un incarico di prestigio, come la presidenza del Parlamento europeo (anziché il ritorno alla guida del governo) che lo avrebbe proiettato sulla scena come figura istituzionale, grazie anche ad un lungo distacco dalla politica interna, probabilmente gli avrebbe evitato quella lotta intestina col segretario del partito, Forlani, fatale ad entrambi in quella drammatica elezione quirinalizia del 1992, e che fu il colpo di grazia per la già malconcia Dc.
Fervente cattolico, da politico ha conosciuto ben sette Pontefici, da Pio XII all’attuale Papa Francesco; l’ex presidente della Repubblica Cossiga disse di lui “è un cattolico impegnato in politica: anzitutto cattolico, e poi politico”. I suoi rapporti col Vaticano erano assai intensi e anche la sua politica estera ricalcò molto la Ostpolitik d’Oltretevere.
Di riconosciuto profilo internazionale, europeista convinto, fu tra i vincitori del braccio di ferro che piegò l’allora premier britannica Margaret Thatcher (anch’ella scomparsa di recente) nel drammatico vertice europeo dell’autunno 1990 sulla preparazione del Trattato di Maastricht che pose le basi per la moneta comune. Durante la lunga esperienza internazionale, fu a contatto con ben 12 presidenti Usa (da Truman ad Obama), e sette leader sovietici (da Stalin a Gorbachev).
Resta da affrontare il tema controverso dei “lati oscuri”: i casi Gelli e Sindona, ed i processi a suo carico.
I rapporti con i due discussi personaggi, per i quali peraltro non ha mai subito indagini a carico, restano misteriosi: vicende come quella della Banca Privata (con la morte in carcere dello stesso finanziere) o del Banco Ambrosiano, sulle quali, ripetiamo, mai indagine ha coinvolto l’ex premier, aprono spaccati non certo cristallini sulla storia d’Italia, in particolare sui rapporti tra la Dc ed un certo mondo finanziario assai opaco.
Due i procedimenti giudiziari a suo carico che hanno caratterizzato gli anni ’90 e i primi anni 2000: uno, tenutosi a Palermo, in cui era accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, l’altro, celebratosi a Perugia, che lo vedeva accusato di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Assoluzione piena sul caso Pecorelli, vittoria a metà sui rapporti con Cosa Nostra: pienamente assolto in primo grado, la sentenza di appello pone uno spartiacque a far data dalla primavera 1980; prima di quella data, prescrizione per i reati ascrittigli; dopo la primavera 1980, assoluzione piena; la sentenza è stata poi confermata in Cassazione, anche perché sarebbe stato inutile rinviare il processo in appello (per un’assoluzione integrale), per ulteriori accertamenti su fatti comunque già prescritti. In entrambi i processi, Andreotti si è difeso caparbiamente, partecipando a tutte le udienze che lo riguardavano e prendendo anche appunti e confutando le accuse mossegli, tra cui quella più celebre e clamorosa di un incontro privato col “capo dei capi” di “Cosa Nostra” Totò Riina, in cui i due si sarebbero scambiati un bacio in stile mafioso; quest’accusa specifica cadde con lo stesso clamore con cui fu formulata.
Da senatore a vita ha partecipato anche alle vicende politiche della Seconda Repubblica: seguì la confluenza della Dc nel Ppi di Martinazzoli; nella spaccatura dei popolari tra i seguaci di Bianco e Marini, che andarono nel centrosinistra, e quelli di Buttiglione, che si allearono con Berlusconi, Andreotti si schierò coi primi, votando le fiducie ai governi Dini, Prodi, D’Alema, Amato e ancora Prodi nel 2006; sempre piuttosto freddo col centrodestra, negò la fiducia ai governi Berlusconi, ad eccezione che nel 2008. Tentò, nel 2001, l’avventura neo-centrista, con Sergio D’Antoni e Ortensio Zecchino, ma la formazione da essi fondata, Democrazia Europea, si fermò al 2 e mezzo percento (al maggioritario ottenne il 3 e mezzo riuscendo ad eleggere coi resti due senatori), restando lontana da quel 4% che le avrebbe consentito l’ingresso in Parlamento e mancando (anche per l’ampiezza della vittoria di Berlusconi) l’obiettivo massimo: impedire che ci fosse una maggioranza in Parlamento e porsi come ago della bilancia. Si rivelò uno dei tanti fallimenti dei disegni neo-centristi nella II Repubblica.
Con la sua morte, è proprio il caso di dirlo, se ne va un pezzo di storia italiana.