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Don Pino Puglisi, venti anni dopo

di Antonio Caputo

Don_Pino_PuglisiEra una calda sera di fine estate, a Palermo, quel mercoledì 15 settembre, attorno alle 21, quando Don Pino Puglisi stava rincasando dal Seminario Arcivescovile (dove era direttore spirituale) e ad attenderlo, in piazza Anita Garibaldi, nel quartiere Brancaccio, trovò un commando mafioso, composto da Salvatore Grigoli (fu lui a premere il grilletto), Gaspare Spatuzza (che chiamò il sacerdote, facendolo voltare mentre l’altro gli sparava alla nuca) e ancora, Luigi Giacalone, Cosimo Lo Nigro e Nino Mangano, tutti alle dipendenze dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, i boss del quartiere; terminava così, con una brutale esecuzione, l’avventura terrena del “prete del sorriso”.
Nonostante il caldo costringesse molti a tenere finestre e balconi di casa aperti, nessuno (come al solito) vide o sentì nulla; d’altronde la presenza mafiosa a Brancaccio è tale che tuttora nessuno o quasi osa sfidarla, e neppure in quell’occasione, ovviamente, ci fu qualcuno che se la sentì di rompere il clima omertoso.
Ma chi era questo prete, che combatteva in prima linea a mani nude contro Cosa Nostra, in una delle sue roccheforti? Nato (nel 1937) e cresciuto a Brancaccio da famiglia di umili origini, Don Puglisi fu ordinato Sacerdote nel 1960; inizia la sua attività pastorale l’anno seguente, nella Parrocchia del Santissimo Salvatore, nel vicino quartiere di Settecannoli, per poi passare alla Chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi, una delle più antiche (e belle) di Palermo, anch’essa ubicata nell’area sud-orientale della città; poi vicario parrocchiale per 7 anni, dal 1963, nella Chiesa di Maria SS. ma Assunta. Nominato parroco nel paese di Godrano, vi rimarrà dal 1970 al 1978, quando viene chiamato a svolgere vari ruoli in Diocesi (responsabile del Seminario e del Centro Vocazioni). Attivo anche nell’insegnamento, spiazzava gli alunni, dicendo loro “rompete le scatole”, col significato di non conformarsi all’ordine mafioso soffocante, ma di ragionare, invece, con la propria testa.
Tornerà a Brancaccio nel 1990, nominato Parroco di San Gaetano. Pessimista sulle possibilità di recupero degli adulti, investirà (come per l’insegnamento) sui più giovani, per cercare di non far entrare almeno loro nel tunnel mafioso. Per sottrarre i bambini alla strada, organizza attività ricreative e di gioco nella Parrocchia, cercando di ampliare l’oratorio e di costruirvi strutture sportive. Culmine del suo impegno sociale è la realizzazione del Centro di ascolto e accoglienza “Padre Nostro”. Inoltre, Don Pino supportava attivamente il comitato intercondominiale di via Azolino Hazon, selva di casermoni in cui (al di là degli obbrobri edilizi, che a Brancaccio come altrove simboleggiano il potere della mafia che quei casermoni ha costruito) i sotterranei erano diventati l’altra faccia della medaglia del controllo mafioso: combattimenti clandestini di cani, spaccio minorile. in assenza di qualsiasi presidio di pubblici poteri (scuole, caserme, uffici; mancavano persino le fognature). Brancaccio come, dall’altra parte della città, lo Z.E.N./San Filippo Neri, quartieri dove non si muove foglia che la mafia non voglia, in un clima di violenza, intimidazione, abusivismo e degrado da fare orrore. Cercare di togliere i minori da quest’inferno è stato l’obiettivo di Don Pino: troppo per Cosa Nostra, che non poteva farsi sfilare i giovani, future leve della manovalanza; che non poteva permettere che la gente (fino a quel momento controllata capillarmente) rialzasse la testa, sotto la spinta di quel “prete che sparava dritto”.
Ma non dobbiamo immaginarci Don Puglisi come uno che partisse a sfidare Cosa Nostra, lancia in resta (anche se più d’una volta, celebrando Messa fuori dal sagrato, si era personalmente rivolto ai mafiosi): il suo combattimento era né più né meno che fare il suo dovere. Evidentemente, già questo dava fastidio, nella Palermo che voleva cambiare dopo le tragiche morti di Falcone e Borsellino: se non fosse stato messo a tacere, Don Puglisi poteva essere l’ennesima voce scomoda all’interno della Chiesa, in grado di sottrarre consenso al potere mafioso, soprattutto dopo il durissimo discorso di Giovanni Paolo II ad Agrigento.
Karol Woytila, che non ebbe paura del regime comunista in Polonia, di quello rivoluzionario-massonico in Messico, del fascista Pinochet in Cile e delle “scomuniche” internazionali nel 1990-91 (quando disse no alla guerra contro Saddam Hussein), non aveva certo paura della mafia e si recò in prima linea, come un generale che va a galvanizzare la truppa, parlando come nessuno aveva mai osato: “Vi sia concordia in questa terra, senza morti assassinati, senza paura, senza minacce, senza vittime… Avete diritto a vivere nella pace! E questi che sono colpevoli di disturbare questa pace, che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, devono capire che non si permette di uccidere innocenti! Dio un giorno ha detto “non uccidere”… Non può qualsiasi umana agglomerazione (mafia) calpestare questo diritto santissimo di Dio! Questo popolo siciliano … che ama la vita… non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà della morte! Nel nome di questo Cristo, Crocifisso e Risorto, che è Via, Verità e Vita, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”.
La reazione di Cosa Nostra non si sarebbe fatta attendere: a fine luglio, due autobomba sventrano la Chiesa di San Giorgio al Velabro e soprattutto la Cattedrale di Roma, San Giovanni in Laterano con annesso appartamento del Cardinal Vicario, Ruini; a metà settembre, appunto, l’assassinio di Don Puglisi, nel giorno del suo compleanno.
Come ogni potere, (politico, economico, militare, mediatico/culturale), anche quello mafioso non tollera che la Chiesa metta becco nella formazione delle persone; evidentemente dà fastidio che qualcuno dica che l’uomo, ogni uomo non appartenga allo Stato, all’esercito, al partito, all’ideologia, alla mafia o a quant’altro, ma che sia figlio di Dio. Il martirio di Don Pino si inserisce in una storia di due millenni, nella quale i testimoni autentici di Cristo sono condannati alla sua stessa fine: insulti, carcere, campagne diffamatorie, persecuzioni, in molti casi fino alla morte. Stabilito che si trattava, per l’appunto, di un omicidio “in odio alla Fede”, Benedetto XVI ha emanato il decreto di beatificazione, con la celebrazione tenutasi a Palermo il 25 maggio scorso. Un’ultima considerazione: fa specie pensare al martirio, un qualcosa che richiama alla mente tempi lontani o terre lontane, come ad un avvenimento di oggi nella cosiddetta cattolica Italia.

 

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