Le due facce della crescita cinese
Cresce ancora la Cina, ma non come una volta. Diversamente da quanto si potrebbe immaginare guardando i semplici dati della crescita economica dell’ultimo trimestre, che segnano un aumento del 7,8% tra luglio e settembre (migliorando il 7,5% dei tre mesi precedenti), il quadro della seconda economia mondiale non è così chiaro. Il mini pacchetto di incentivi varato dal governo di Pechino, comprensivi di tagli alle tasse, semplificazione e riduzione dei costi delle procedure amministrative, investimenti in infrastrutture metropolitane e ferroviarie, ha avuto sicuramente il pregio di rilanciare il colosso asiatico e di ridare fiducia e ottimismo ai mercati e agli investitori stranieri ma appare comunque inserito nel più ampio tentativo di variare la rotta generale del paese. I rapporti pubblicati dal China’s National Statistics Bureau e rilanciati dal Financial Times mostrano infatti una evidente, seppur lieve, flessione di molti indici strutturalmente rilevanti. In particolare la produzione industriale ha avuto un incremento nell’ultimo trimestre pari al 10.2% rispetto all’anno precedente ma una flessione dello 0,2% sul periodo da aprile a giugno. Calano inoltre gli investimenti e la vendita al dettaglio, confermando le previsioni di economisti come Jian Chang (Barclays) che già prima della pubblicazione dei dati dell’istituto cinese prevedeva “una flessione nello slancio economico fino al quarto trimestre del 2014”. L’economia cinese si trova infatti a fronteggiare una serie di pericolosissime sfide fra cui un eccesso di capacità produttiva (forzatamente e temporaneamente supportata proprio dagli investimenti infrastrutturali del governo di Pechino), rischi finanziari e fiscali oltre ad una “latente bolla immobiliare e ad un potenziale crollo del tasso di crescita”. Non si può infatti non notare la decelerazione subita dal tasso di crescita del colosso orientale in ben 11 degli ultimi 14 trimestri. Se si confronta il dato complessivo del 2012, attestatosi al 7,8% (il più lento degli ultimi tredici anni), con quello del 2010, prossimo al 12%, la differenza appare evidente. Di più, se come previsto il livello di crescita complessiva del 2013 non supererà il 7,6% l’economia cinese raggiungerà il peggiore obiettivo dal 1990, anno in cui dovette sopportare le sanzioni successive ai fatti di Piazza Tiananmen del 1989. Allargando ancora l’analisi si potrebbero prendere in considerazione dati come la minor crescita dei consumi elettrici o, ancor più significativamente, la variazione delle esportazioni, cresciute nell’ultimo mese solo dello 0,3 percento rispetto all’aumento del 6% dei due precedenti. Appare dunque evidente come l’establishment cinese stia cercando di far scivolare la seconda economia mondiale verso tassi di crescita e sviluppo più sostenibili. Gli obiettivi fissati da Pechino, un tasso di crescita del PIL pari al 7,5% con un’inflazione non superiore al 3.5% (da questo punto di vista appare più che confortante l’attuale tasso d’inflazione del 3.1%), sembrano infatti andare proprio in questa direzione. L’ottimo risultato conseguito nel terzo trimestre ha dunque principalmente il valore di confermare la possibilità della Cina di evitare durissimi contraccolpi nel delicato passaggio da un’economia dalla crescita vertiginosa e, ormai, insostenibile ad una più tollerabile prospettiva di aumenti contenuti.