L’apprendistato e i ritardi dell’Italia
La Commissione europea stima che l’incremento di un solo punto percentuale dell’apprendistato equivale ad un aumento dello 0,95% del tasso di occupazione giovanile (15-24 anni) e una riduzione dello 0,8% di quello di disoccupazione. In Italia l’apprendistato è stato introdotto nel 2011 e prima delle ultime modifiche disciplinava tre ipotesi: l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale per gli under 25 (con la possibilità di conseguire un titolo di studio in ambiente di lavoro); l’apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere per i giovani tra i 18 e i 29 anni; l’apprendistato di alta formazione e ricerca per conseguire titoli di studio specialistici, universitari e post-universitari. Con la riforma Fornero lo strumento è stato rafforzato allo scopo di renderlo il principale trampolino di lancio per i giovani nel mercato del lavoro, in teoria un’ottima forma di assunzione con un alto valore formativo. Ma gli eccessivi adempimenti burocratici, le regole a cui sono sottoposti i datori di lavoro, le difficoltà – talvolta – ad individuare gli enti che dovrebbero erogare la formazione hanno finora ridotto l’apprendistato a un vano tentativo. Il dl Poletti, almeno nella sua ultima stesura, prevede una quota del 20% di stabilizzazione di apprendisti, ma valevole per le imprese con oltre 50 dipendenti.
L’Adapt ha pubblicato in questi giorni un ebook sull’argomento (Apprendistato: quadro comparato e buone prassi), osservando che “l’Italia rischia di accumulare un ulteriore ritardo rispetto agli pasei dell’Ue”. Questo perché “gli interventi legislativi che si sono susseguiti hanno un poco alla volta smontato il sistema dell’apprendistato faticosamente costruito attorno al Testo Unico”.
Ciò che emerge dall’analisi dell’Adapt è che alcune tipologie di apprendistato restano sperimentazioni che coinvolgono qualche centinaia di ragazzi. “Mentre – viene fatto notare – nel resto dell’Europa stanno diventando il modello di riferimento per la formazione secondiaria superiore e terziaria”.
I ritardi dell’Italia
L’Ue nel 2013 ha dato vita all’Alleanza europea per l’apprendistato, il cui obiettivo è arginare la disoccupazione giovanile (nel nostro paese oltre il 40%) migliorando la formazione professionale e aumentando la domanda. Per ottenere risultati di rilievo, l’Europa suggerisce regole stabili – cosa che nel nostro paese, abbiamo visto, non si è ancora verificata – e un coinvolgimento attivo tanto delle parti sociali quanto delle imprese. Qui sorge però un primo divario rispetto ai partner europei, che della componente formativa fanno il proprio punto di forza. Le principali differente riguardano il monte ore della formazione, la durata del percorso e la retribuzione, elementi che possono peraltro variare secondo le competenze già possedute dall’apprendista. Tempi certi sono previsti in Germania e in Austria – osserva l’Adapt – dove “la formazione sul lavoro occupa il 70% o l’80%”. Ma anche in Inghilterra dove si tiene conto delle ore complessive: “Su 280 ore annuali di formazione, cento sono off the job e le rimanenti in situazione di lavoro”. Da noi è variabile in base alla tipologia di apprendistato, ma soprattutto dall’ente erogatore. La retribuzione degli apprendisti viene definita in Italia dalla contrattazione collettiva, con due possibilità: sottoinquadramento o percentualizzazione del salario. Anche in Austria dipende dai contratti collettivi applicabili, con remunerazione progressiva che va dal 25% del salario orario di un lavoro qualificato per il primo anno di apprendistato al 52% del quarto anno, ma con il vantaggio della qualità della formazione off the job.
La Garanzia Giovani e possibili soluzioni
A tale proposito dovrebbe giungere in soccorso la Garanzia Giovani che stanzia finanziamenti per politiche attive di orientamento, istruzione e formazione e inserimento al lavoro. In questo modo ai giovani al di sotto dei 30 anni verrebbe data la possibilità di accedere ad “un’offerta qualitativamente valida di lavoro, proseguimento degli studi, apprendistato o tirocinio, entro quattro mesi dall’inizio della disoccupazione o dall’uscita dal sistema d’istruzione formale”. Ad ogni modo la sovrapposizione di ruoli da parte degli attori chiamati in causa ha impedito all’istituto dell’apprendistato di decollare. “Un possibile esito di una gestione mulitlevel – constata l’Adapt – risulta essere la capacità di adottare e implementare politiche formative che tengono in reale considerazione le esigenze di competenze e professionalità espresse dal mercato del lavoro”. Le politiche di Austria e Germania sono ancora una volta buoni esempi: “Nel primo caso, infatti, risultano censiti e strutturati 220 profili professionali e relative competenze. Nel secondo, invece, si parla di 360 tipologie di qualifiche acquisibili in apprendistato”.
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