La difficile situazione in Thailandia
La Thailandia non è nuova a situazioni del genere. Dalla caduta della monarchia assoluta nel 1932 ci sono stati ben dodici colpi di Stato, l’ultimo dei quali si è consumato nella giornata di giovedì 22 maggio 2014. Parlando al Paese attraverso un messaggio televisivo trasmesso a reti unificate, il generale Prayuth Chan-Ocha ha infatti annunciato che l’esercito ha preso il controllo del governo thailandese. Lo scopo? “Riportare l’ordine e condurre il Paese verso le riforme politiche”, ha spiegato il generale.
E così, dopo aver imposto la legge marziale il 20 maggio, i militari hanno sospeso la Costituzione e indetto il coprifuoco in tutto il Paese dalle 22 alle 5. L’intento è quello di impedire il nascere di possibili manifestazioni di protesta, tant’è che sono stati anche vietati i “raggruppamenti politici” che vedono la partecipazione di più 5 persone. “Chiunque violi il divieto – ha ribadito il portavoce dell’esercito, citato dall’agenzia di stampa AFP – sarà soggetto a un anno di carcere o al pagamento
di 10.000 bath (225 euro – ndr), o entrambi”.
Le origini delle proteste
L’esercito ha così deposto quello che fino a poche ore fa era il premier del Paese: l’ex ministro del Commercio Niwattumrong Boonsongpaisan, chiamato – solo il 7 maggio scorso – a sostituire alla guida del governo Yingluck Shinawatra, destituita dalla Corte Costituzionale con l’accusa di abuso di potere in un trasferimento illegale dell’attuale capo della sicurezza nazionale, Thawil Pliensri. Boonsongpaisan avrebbe dovuto guidare il Paese fino alle prossime elezioni, che si sarebbero dovute tenere a luglio. Ma le proteste dell’opposizione, che chiedeva riforme politiche prima delle votazioni, e l’intervento dell’esercito gli hanno impedito di portare a termine il suo incarico. L’attuale crisi politica thailandese nasce però nel novembre del 2013, quando il governo propose un’amnistia. L’intento – implicito – era quello di permettere il rientro nel Paese al fratello dell’allora premier, Thaksin Shinawatra, condannato per corruzione e abuso di potere nel corso del colpo di Stato nel 2006. In evidente difficoltà, il governo aveva cercato – senza successo – la legittimazione attraverso la vittoria delle elezioni che si sarebbero tenute di li a poco.
Le elezioni del 2 febbraio
Il 2 febbraio scorso, i thailandesi sono stati infatti chiamati alle urne per scegliere i membri del nuovo Parlamento. Lo avevano fatto in un clima di tensione: alla vigilia del voto (il 1° febbraio, per l’appunto), gli scontri tra dimostranti pro e anti-governativi avevano provocato il ferimento di diverse persone e impedito la votazione in alcune delle 77 province in cui è diviso il Paese. Mentre nella Capitale Bangkok sui 6.671 seggi elettorali ben 561 sono stati costretti a chiudere. L’affluenza si era invece fermata al 46% degli aventi diritto. Il voto sarebbe poi stato invalidato qualche giorno dopo (il 21 marzo) dalla Corte Costituzionale con 6 voti a favore e 3 contrari, perché – a causa del blocco dei seggi da parte dei manifestanti – in 28 circoscrizioni fu impossibile votare. Una decisione presa in accordo con quanto prevede la Costituzione thailandese, secondo cui la nuova Assemblea può essere convocata solo se almeno il 95% dei seggi sia stato assegnato.
La (non semplice) situazione economica del Paese
Nel corso del 2013 il Pil thailandese è cresciuto del 3%, al di sotto delle attese degli analisti che stimavano una crescita compresa tra il 4,5% e il 5,5%. Un trend – al ribasso – confermato anche nell’ultimo trimestre (dicembre 2013-febbraio 2014), con il Pil che ha fatto registrare un modesto +0,6%: il tasso più basso degli ultimi due anni. I motivi sono diversi: le attuali difficoltà a livello politico hanno inciso negativamente sul turismo, che costituisce circa l’8% del Pil. Ma anche il rallentamento delle esportazioni, che rappresentano il 70% del Pil, ha influito notevolmente. Ma è proprio la dipendenza dall’export che fa ben sperare gli analisti: secondo la Siam Commercial Bank, la ripresa dell’Eurozona comporterà una crescita delle esportazioni verso il Vecchio Continente del 6%.
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